UTILIZZAZIONE DELLA PERCEZIONE DELLA SOGLIA DEL DOLORE NEL CONTENIMENTO DELLA SINTOMATOLOGIA DELL’ARTROSI

Solo la lunghezza del titolo mi farebbe venire il sospetto che sia un articolo di stampo medico più che di argomenti di attività motoria e invece purtroppo (o per fortuna a seconda dei punti di vista) non è così.

Mi spiego: l’artrosi è sempre una patologia, che sia lieve o che sia grave, pertanto deve essere sempre considerata dal medico, che può essere il medico di medicina generale o una specialista. Sull’argomento io ho la cattiva abitudine di fidarmi di più del medico di medicina generale che dello specialista, ma questa è una mia flippa personale che posso spiegare in poche parole, in ogni caso l’artrosi deve comunque essere valutata anche da un medico.

Quando scrivo “anche” sottintendo anche che poi la stragrande maggioranza delle artrosi (e qui scrivo per fortuna punto e basta perché questa è un’ ottima notizia) finiscono da noi che, così come siamo istruiti per “costruire” (che termine terribile quel “costruire” purtroppo viene molto usato…) un campione, siamo anche istruiti per somministrare nel modo migliore l’attività fisica ad un soggetto artrosico e, in quel caso, l’attività fisica diventa una specie di medicina, l’unica medicina che possiamo utilizzare noi esperti del movimento (che non c’entra niente con gli integratori alimentari dei quali per un vezzo di malcostume siamo sembrati diventare ottimi commercianti…).

Allora, semplificando il quadro, c’è una fase di diagnosi nella quale molto spesso ci mettiamo il becco anche noi esperti del movimento ma in quella fase, se abbiamo sospetti di artrosi, dobbiamo comunque reindirizzare il cliente (chiamiamolo cliente e non “paziente” perché in terza età un’artrosi lieve è quasi una “non patologia” ed un soggetto che ha un po’ di artrosi a quell’età non può nemmeno essere definito paziente ma un comune cittadino un po’ su con l’età) al medico di base. Nella seconda fase il medico di medicina generale esprime il suo primo importante parere e lì io sono molto più contento quando il medico di base non chiede l’intervento di nessuno specialista e rispedisce subito il presunto paziente da me. In certi casi c’è una seconda fase nella quale il paziente (a quel punto mi tocca chiamarlo così) viene reindirizzato da uno specialista e solo dopo quel momento, se tutto va bene, il paziente viene spedito da me.

Sono molto più contento nel primo caso che nel secondo perché in primo luogo quando il soggetto artrosico viene spedito da uno specialista vuol dire che già il medico di medicina generale ha ravvisato una situazione non del tutto tranquilla e pertanto, pur non lavandosene le mani, non si assume la responsabilità di coordinare gli interventi da un punto di vista medico e poi mi tocca ammettere che in tutti i casi nei quali il soggetto viene preso in carico da uno specialista io faccio sempre fatica a collaborare in modo vincente. Il motivo è presto detto: i medici specialisti hanno la mania di curare l’artrosi con i farmaci anche nei casi nei quali questi potrebbero tranquillamente essere evitati. Poco male, è un’abitudine di più o meno tutti i medici specialisti ed io rimpiango i tempi di quando il medico di base aveva tutto sotto controllo, difficilmente ti spediva dallo specialista e ti ordinava medicine se proprio ce n’era bisogno.

Adesso con la scusa del ricorso esagerato a centomila specialisti si assumono molti più farmaci e molte volte anche il tuo medico di base non sa più cosa butti giù, cosa non molto divertente perché non è compito dei singoli specialisti sapere cosa fanno gli altri (problema della medicina parcellizzata, molto attuale, che un tempo non esisteva).

Ora vorrei scrivere, ed è il senso di tutto questo articolo, perché mi trovo bene a collaborare con il medico di base ed anzi sento il bisogno di questa collaborazione per verificare l’efficacia del mio intervento e perché trovo più difficoltà a collaborare con lo specialista.

Intanto la puntualizzazione di una specie di conflitto di competenze: a volte il medico specialista ha la presunzione di voler indicare di che tipo di attività fisica ha bisogno il paziente ma questo non è suo compito perché lui non studia il movimento. Certi medici non sanno distinguere una flessione da un piegamento, non possono sapere se per un certo paziente artrosico è più indicata l’una o l’altro.

Io penso che tale abitudine faccia il paio con il malvezzo di certi preparatori di consigliare l’assunzione di alcuni integratori alimentari. Non dobbiamo occuparci noi di questioni che devono essere segnalate dai medici e loro devono limitarsi a capire l’opportunità di utilizzare l’attività fisica su certi pazienti ma non sono in grado di stabilirne le modalità di somministrazione.

Scrivendo “modalità di somministrazione” sembra proprio che voglia rubare il mestiere ai medici e allora il lettore poco attento può dirmi: “Eh, no, se sono modalità di somministrazione le deve decidere il medico…”. Il fatto è che su certi soggetti (ma a ben guardare su tutti, anche sui perfettamente sani) noi usiamo l’attività fisica come un vero e proprio farmaco e nelle nostre proposte dobbiamo usare un bilancino che deve essere anche più preciso di quello del farmacista se non vogliamo commettere clamorosi errori.

Resta da spiegare perché l’intervento dello specialista a volte mi crea problemi. Nell’utilizzazione dell’attività fisica come strumento per combattere la sintomatologia dolorosa provocata dall’artrosi si lavora proprio ai confini della percezione della soglia del dolore. Questa soglia è una soglia molto labile che si sposta anche di giorno in giorno ed è decisamente influenzabile da un gran numero di farmaci, in primis gli analgesici, che agiscono soprattutto su quella più che su altri aspetti della patologia. Se un farmaco mi sposta in modo artificiale la soglia del dolore io ho le armi spuntate e non riesco più ad usare con efficacia il mio metodo.

Ovviamente è il medico a decidere quando utilizzare certi farmaci ed io rilevo che, statisticamente, i medici di medicina generale sono molto più parchi nel prescriverli sulle patologie artrosiche mentre gli specialisti li utilizzano anche quando, a mio parere, apparentemente se ne potrebbe fare a meno.

Qui il potenziale conflitto con i medici è quasi inevitabile e allora bisogna essere precisi. Se il medico ravvisa che il paziente, per colpa di quella patologia, ci sta perdendo pure il sonno è lui che deve decidere che occorrono gli analgesici e poi saranno tutti affari miei, sempre se il medico ha deciso che il paziente può venire in palestra, tentare di lavorare in modo vincente con quel paziente anche se sta assumendo analgesici e le sue risposte ai vari stimoli motori sono del tutto falsate. Ma se il medico decide che quel paziente non deve sentire dolore nemmeno quando viene a fare ginnastica e poi me lo spedisce in palestra praticamente “anestetizzato” allora sta interferendo con il mio mestiere ed io non posso certamente variare la posologia del farmaco ma, accidenti, con un paziente insensibile al dolore faccio fatica a capire cosa può fare.

Gli innumerevoli conflitti metodologici che riguardano la classe medica (il Covid ha messo in risalto come ogni medico ragioni con la sua testa e ci mancherebbe che non fosse così, saremmo tutti degli automi, il problema della pandemia non è che tanti medici abbiano proposto soluzioni diverse ma che i pazienti abbiano ascoltato i cantanti o i presentatori televisivi più che il loro medico. A questo punto è intervenuto il legislatore che in questo casino si sentiva obbligato ad intervenire e per conto mio ha fatto le cose peggiori che si potessero fare perché ha letteralmente sputtanato la classe medica proponendo regolamenti assurdi) sono vieppiù amplificati nel settore dell’attività motoria dove ogni insegnante propone il suo metodo. Secondo il mio metodo (e molti miei colleghi vi diranno esattamente il contrario…) la percezione del dolore è fondamentale per capire se un certo esercizio può essere proponibile per un certo problema articolare. Facile a questo punto comprendere come io sia sempre a sperare che il mio cliente non pigli assolutamente nessun antinfiammatorio e tanto meno nessun analgesico per la sua stramaledetta artrosi.

E’ chiaro che io non voglio che il paziente soffra, viene a ginnastica per stare bene, non per soffrire, e sono continuamente a chiedere come sente i vari dolorini, primo perché non voglio che soffra, secondo perché è grazie a quel monitoraggio che riesco a capire se sono sulla strada giusta o meno. Da quel punto di vista il cliente stoico che sente male ma non me lo dice perché nella sua cultura di eroi bisogna muoversi anche se si sente male, non mi aiuta. Per conto mio si può anche sentire un po’ di male e molto spesso mi sono trovato a dire che “se il dolore non peggiora ma la quantità di carico è aumentata, per certi versi quella è già una risposta interessante” ma in ogni caso non sto a giocare con il dolore e non voglio assolutamente che aumenti in modo indiscriminato durante o dopo la lezione.

Insomma percepire bene il dolore non è brutta abitudine di chi si lamenta troppo ma al contrario è elevata attenzione di chi è concentrato a capire come fare per combattere il dolore e apprezza ogni reazione all’esercizio nel modo più proficuo. Così come il campione tenta di capire qual’è il carico di allenamento più adatto in una certa situazione e non è per niente vero che più carica e meglio è perché rischia di infortunarsi o di andare in sovrallenamento, il paziente artrosico ascolta attentamente cosa è in grado di fare e boccia ciò che sta sopra ad una certa soglia come promuove tutto ciò che sta sotto a quella soglia. Se si usano gli analgesici si rischia di promuovere anche atteggiamenti che andavano decisamente bocciati. Ed in questo caso mi calo anche nel ruolo di insegnante severo. Con la salute non si scherza.