L’unica volta che ho sentito parlare della teoria dei “traumi” con riferimento allo sport è stato a Udine quando approdai alla Libertas a metà anni ’80. Il professor Franco Colle, che era stato allenatore del mitico Venanzio Ortis, volle tentare di capire perché con tante squadre interessanti che gravitavano attorno alla mia città (Verona) ero finito proprio alla Libertas Udine. La motivazione non era di ordine economico perché per il mio livello prestativo si capiva benissimo che ricco non ci sarei diventato ad Udine come non ci sarei diventato in nessun’altra città del mondo con quei risultati. I rimborsi spese ai quali potevo ambire (giustamente, visto che mi allenavo né più né meno di un professionista) avrei potuto prenderli in altre squadre vicine alla mia città.
Dunque bisognava scavare più a fondo per capire i motivi di quella scelta. Donne segrete non ne avevo e tanto meno di non segrete. Anche quella causa era scartata. Parenti nemmeno. Amici ne avevo più o meno in giro dappertutto e quello che mi aveva procurato il contatto alla Libertas non era che fosse un amico che vedevo tutti i giorni. Non si riusciva a trovare un motivo concreto. Non ci volle molto per capire, però, che del Friuli io avevo un ricordo ben preciso e che c’entrava poco con questioni dell’atletica e fatti personali. Per me il Friuli era anzitutto la terra dove meno di dieci anni prima si era scatenato un terremoto terribile che aveva seminato morte in quelle terre e sconvolto tutta l’Italia. Non c’era dubbio che avevo vissuto quei giorni in modo molto traumatico, quasi come se fossi stato un friulano, anche se non avevo avuto nessun conoscente fra le vittime di quella disgrazia e così il simpatico professor Colle concluse con un’osservazione fra il serio ed il faceto: “Tu hai un conto aperto con il Friuli, è per quello che sei qui…”.
A più di trent’anni di distanza faccio fatica a pronunciarmi sulla validità di questa osservazione però c’è un dato inequivocabile: per me il Friuli è certamente quella regione dove nel 1976 si è verificato un dei più terribili terremoti della storia d’Italia (che ha fatto chiudere una scuola a pochi metri da casa mia, a più di 200 chilometri di distanza, tanto per dire…) ma a è soprattutto la regione dove dieci anni più tardi, nel 1986, io ho vinto un titolo regionale sui 1500 metri che ha marcato la mia memoria in modo indelebile, a prova di Alzheimer. Il Friuli “uno” sono pochi secondi nei quali vedo il terrore in faccia a mio padre e lo scopro non capace di proteggermi per la prima volta nella mia (e forse nella sua…) vita. Il Friuli “due” sono tre minuti e cinquantacinque secondi (che potevano essere anche meno, ma forse nel subconscio ho deciso che dovevano essere di più perché sapevo che sarebbero stati istanti fantastici da ricordare) nei quali ho dominato dall’inizio alla fine una gara nella quale non si è accorto di me nessuno se non negli ultimi 20 metri quando sono finalmente passato in testa per vincerla. Anche se avevo una paura terribile (la paura che ricorre…) sapevo che l’avrei vinta, che molto probabilmente l’avrei vinta.
Stavo troppo bene, era proprio per quello che potevo permettermi il lusso di lasciare un buon margine ai battistrada, di non fare nulla perché il ritmo aumentasse, di non fare nulla per far capire che alla fine l’avrei vinta io.
Il Friuli “due” è una poesia di 3 minuti e 55″ che ricordo a memoria che non può cancellare l’idea del terremoto ma ti fa pensare che non puoi ricordare una terra solo per il terremoto che l’ha devastata. E così la mia esperienza friulana, al di là di quella perfetta gara sui 1500, è un’esperienza di emozioni di atletica leggera che va ben al di là del terremoto. Poi, inutile negarlo, quando andavo a correre le corse campestri e mi piazzavo disastrosamente in paesi che erano stati fra i più martoriati dal terremoto ero proprio io a fare battute sceme del tipo “Ma come posso io andare forte in un paese che solo a sentirne il nome mi viene paura?”.
Tutta questa pappardella può lasciare spazio alla teoria dei traumi. Un trauma forte ti fa venir voglia di provare emozioni più forti per superarlo e quello stesso, per assurdo, può anche limitarti nel raggiungimento di altri risultati (anche se sono convinto che se fossi stato un forte crossista avrei corso bene anche nei paesi dai nomi “traumatizzanti”).
La teoria dei traumi è di evidente significato psicologico ma può essere considerata in teoria e metodologia dell’allenamento anche da un altro punto di vista. Soprattutto per me, che sono assiduo propositore di stimoli altamente fisiologici e mai troppo elevati per rispettare la salute dell’allievo, è opportuno un quesito: “Ma siamo sicuri che il processo di allenamento sia condizionato molto da una serie di stimoli adeguati ripetuti nel tempo e non sia piuttosto turbato in modo decisivo, nel bene e ne male, da una esigua quantità di sedute di allenamento (o anche di competizioni) altamente traumatizzanti?”.
Questa è una domanda decisamente subdola perché se la risposta è che non siamo sicuri proprio di nulla e che è pure possibile che il processo di allenamento sia condizionato in modo decisivo da poche sedute decisamente più importanti di altre perché altamente traumatizzanti allora forse perdiamo tempo la maggior parte delle volte che ci rechiamo al campo di allenamento.
Forse per dare una risposta a tutto ciò, dobbiamo portare in campo un concetto di trauma positivo. Si può arrivare a dire che se per me il Friuli fosse stata terra di cocenti sconfitte con quel campionato regionale perso per colpa di un ruzzolone (forse solo così avrei potuto perderlo…) e senza nessuna emozione in atletica sarebbe anche inesorabilmente rimasta soprattutto la terra del terremoto del ’76.
Ci sono traumi negativi e traumi positivi. In atletica se vogliamo marcare a buon fine la mappe cerebrali che portano al risultato sportivo, dobbiamo cercare quelli positivi e se vogliamo tentare di non minare la preparazione con inutili pericoli dobbiamo stare alla larga da quelli negativi. Ma allora la teoria della lenta costruzione dell’atleta con stimoli certamente fisiologici, mattone dopo mattone, viene a crollare. E’ un vero e proprio terremoto. In questo caso però, la teoria dei traumi non crolla, regge, sta in piedi e può essere un ulteriore tarlo per chi è appassionato di teoria del movimento. Fate pure le cose razionali, è giusto farle, ma dopo sappiate che arriva quella gara o quell’allenamento che vale per dieci o per cento. E non è certamente sprecando fatica che trovate quei momenti, anzi se esagerate con la fatica vi esponete quasi di sicuro ai traumi negativi che sono quelli che possono stroncare la vostra attività sportiva più che farla decollare. I traumi esistono, quel giorno che riusciremo a pilotarli forse saremo dei mezzi Padreterni, Intanto è già importante sapere che esistono e condizionano le nostre gesta anche più di quello che possiamo immaginare.