Questo potrebbe sembrare un articolo di politica perché le inerzie di comportamento essenzialmente vengono ritenute quelle della classe politica che, di qualunque colore sia, quando va a governare finisce sempre per fare stesse cose, invece è un articolo di teoria del movimento perché le inerzie riguardano soprattutto il movimento, tanto è vero che scrivere “inerzie di comportamento nel movimento” sarebbe una inutile ripetizione.
Qualsiasi essere umano (ma pure gli animali…) ha delle forti inerzie di movimento dettate dagli innumerevoli comportamenti automatizzati che ci caratterizzano per renderci la vita meno complicata. Si potrebbe dire che abbiamo dei veri e propri anticorpi pronti ad aggredire gli agenti esterni che premono per un cambiamento delle nostre abitudini.
Fra questi “anticorpi” possiamo annoverare anche quei finti fattori di cambiamento che in realtà sono dei veri e propri sistemi di controllo contro il cambiamento. Mi viene in mente, trattando di allenamento per la corsa, il leggendario “Alza le ginocchia” che tradotto in termini pratici vuol dire: -Non ho alcuna reale intenzione di suggerirti di modificare la tecnica di corsa altrimenti non ti direi uno stereotipato “alza le ginocchia” che è un po’ come dire “Spingi di più!” all’atleta che si sa benissimo che non ha intenzione di spingere nemmeno una virgola di più per mille motivi diversi anche insondabili. –
Il cambiamento costa, è poco rassicurante ed in tante nostre attività (talvolta anche nello sport) tentiamo proprio di scappare dal cambiamento rifugiandoci in comportamenti stereotipati che ci danno un’ illusione di eterna stabilità.
Abbiamo grande propensione per il mantenimento di alcune condizioni di equilibrio omeostatico che sopprimono eventuali spinte al cambiamento e così ogni potenziale stimolo al cambiamento viene visto come un fattore di disturbo potenzialmente pericoloso, destabilizzante e comunque fastidioso.
In molti atleti, per esempio, non è mai stata sondata con la dovuta efficacia più che la propensione alla sconfitta, che non fa piacere a nessuno, una sorta di allergia al vero successo. Mentre il successo parziale è ben tollerato, piacevole, salutare, ottima motivazione per la prosecuzione dell’attività sportiva, il successo clamoroso, quello che implica un cambiamento dello stile di vita se viene riconosciuto, porta con sé anche delle grandi scocciature oltre che i vantaggi tanto decantati dalla società della ipercompetizione. Insomma a parole vogliamo tutti ottenere il massimo anche nello sport, nei fatti quelli che puntano realmente ad emergere e che sono disposti a cambiare il loro stile di vita per affrontare una carriera sportiva di alto livello sono ben pochi. Forse anche in questo modo si spiega il fenomeno del campionismo in tenera età tipicamente italiano dove fino all’età di 15-16 anni abbiamo una quantità di potenziali campioni che è semplicemente disorientante mentre solo due o tre anni più tardi quel numero si è assottigliato in modo drammatico. Il campioncino di 15-16 anni tutto sommato può esercitare il suo ruolo anche solo con piccoli sacrifici sul campo sportivo ma non è poi costretto a rivedere il suo stile di vita nei confronti dei coetanei. L’atleta quasi maturo di 19-20 anni, anche se non è un campione affermato, se vuole fare le cose come vanno fatte per emergere, deve adottare delle scelte che non sono per niente facili da prendere in una età dove la competizione nel mondo del lavoro è stordente. In sintesi è più facile continuare a studiare per un atleta di vertice di 15 o 16 anni che per uno di valore simile ma di 19 o 20 anni e se parliamo di attività lavorativa la questione si complica ulteriormente.
Le inerzie al cambiamento di comportamento che sembrano un fattore marginale diventano il fattore decisivo in molte scelte di vita e l’attività sportiva non fa certamente eccezione.
Ho brevemente accennato alla problematica degli sportivi di alto livello che sono abbastanza pochi ma le resistenze al cambiamento esistono a tutti i livelli e proverbiale è quella del sedentario (attenzione che qui non parliamo più di poche migliaia di soggetti ma milioni e milioni) che si inventa tutte le scuse immaginabili per non smuoversi dal suo status di “sedentario cronico” e riesce ad abbattere una ad una con grande precisione tutte le potenziali insidie verso lo sgretolamento della sua condizione di sedentario. Per certi versi è quasi più difficile convincere un sedentario a muoversi come una persona normale che non convincere un discreto atleta a provare la via del successo come se fosse un atleta con un alto potenziale di carriera di vertice. Il secondo deve solo aumentare le sue aspettative, il primo invece deve letteralmente saltare il fosso e dentro a quel fosso ha una grande paura di cascarci.
Insomma siamo abituati a perdere tanto tempo su dettagli tecnici per migliorare certi aspetti della preparazione o per estendere le possibilità di movimento ai sedentari quando con poche nozioni di psicologia spicciola dovremmo semplicemente tentare di abbattere quei muri che impediscono che vengano prese certe scelte in modo sincero e deciso.
Non c’è metodologia di allenamento valida per un atleta che non vuole arrivare a certi livelli prestativi e non c’è pratica sportiva utile per un ammalato di divano che non ha alcuna intenzione di schiodarsi dal suo divano. La ricerca deve andare in direzione delle cause profonde che vietano un cambiamento di stile di vita più che sulle pratiche idonee a produrre un cambiamento che non è voluto. L’ubriacone alza molte volte il bicchiere per il semplice motivo che vuole bere non perché ha i muscoli del braccio molto efficienti, e così l’astemio non alza il gomito solo perché non ha passione per il vino, non perché ha un particolare deficit muscolare.