Ci sarebbe una terza categoria di recuperi che non voglio riportare nel titolo per non fare un titolo di stampo terroristico ma è proprio con questa che dobbiamo confrontarci per capire la problematica di alcuni recuperi soprattutto con riferimento ad alcuni infortuni un po’ lunghi da risolvere: sono i recuperi “dannosi”. Il recupero può essere dannoso solo se è troppo lungo perché sono più i danni che fa alle strutture sane dei benefici che porta alle strutture sotto stress. E’ opportuno fare sempre un bilancio della condizione fisica generale quando si va a somministrare un recupero molto lungo, non solamente considerare i miglioramenti, magari quasi irrilevanti, della struttura sofferente.Certe tendiniti, patologie notoriamente lunghe da debellare e negli atleti di alto livello tendenti a cronicizzare (e non ci sono recuperi che tengano, cronicizzano per problemi di qualità di carico non per recuperi sbagliati) sono devastanti non in quanto già di per sé alterano la capacità prestativa dell’atleta ma anche perché richiedendo recuperi particolari a volte finiscono per turbare delicati equilibri dell’atleta che partito con una tendinite si trova a troncare la carriera per tutt’altri motivi.
Il recupero necessario o essenziale in realtà è molto più breve di quello che si possa credere solo che si fa fatica a capire quando sia il momento giusto per giocarlo. Paradossalmente si è poco tempestivi nel capire il momento giusto per recuperare e poi quando si parte con il recupero è facile adottare recuperi troppo lunghi che nella prima fase di eccesso di lunghezza sono semplicemente inutili e nella seconda diventano addirittura dannosi.
Tanto per dare i numeri, anche se dare i numeri in questo campo non trattando di situazioni specifiche è proprio un “dare i numeri” in senso figurato, se non siamo in presenza di fratture che meritano un discorso completamente a parte, la maggioranza degli infortuni da sovraccarico negli atleti possono beneficiare di recuperi della durata massima di una settimana, anche se in molti casi è giusto precisare che possono essere sufficienti uno o due giorni (molto spesso un giorno solo per chi si allena due volte al giorno, diciamo che basta saltare due sedute di allenamento), quando il recupero supera una settimana quasi sempre è inutile (almeno nella sua prosecuzione) e può creare qualche problemino e quando supera le due settimane può cominciare a diventare dannoso perché turba degli equilibri di vario tipo, addirittura di tipo psicologico negli atleti abituati ad allenarsi molto.
Un ottimo sistema per ovviare agli inconvenienti dei recuperi molto lunghi è quello di escogitare attività fisiche che possano tenere in movimento senza sollecitare la struttura che non si vuole caricare ma in alcune situazioni non è sufficiente questa precauzione. Nel caso della corsa, per esempio, quando si sta più di 15 giorni senza correre è facile che alla ripresa si possano accusare dolori di adattamento di strutture che non c’entrano un bel nulla con quella che ha richiesto il recupero e così ci si infila nel classico vortice senza fine dal quale entrati per un banale infortunio che si poteva risolvere semplicemente con una buona gestione dei recuperi brevi non se ne viene più fuori.
Ecco, forse la cosa più difficile è proprio gestire bene i recuperi brevi e intuire tempestivamente quando è il momento di adottarli. Purtroppo fintanto che uno è in piena attività fa fatica ad interpretare bene i segnali di sovraccarico, va come un treno e non capisce che in realtà sta accadendo qualcosa che richiede un piccolo recupero.
Se si può creare un motto in tema di recuperi è “Meglio un breve recupero anche non necessario che non un recupero troppo lungo quando il disastro è già avvenuto”.
Se è vero che il recupero troppo lungo fa quasi sempre danni e la sua pericolosità viene spesso sottovalutata anche dalla classe medica è anche vero che un recupero breve non è quasi mai dannoso e pertanto inserirlo anche quando non necessario è un peccato veniale. Ovviamente qui bisogna anche fare i conti con la psiche dell’atleta e distinguere gli atleti in due grandi categorie: quelli che possono tranquillamente fermarsi senza problemi e quelli che fanno fatica a fermarsi, soffrono letteralmente nei momenti di pausa e troveranno mille scuse per non fermarsi e proseguire l’attività a costo di rischiare di infortunarsi davvero.
Per capire perché a volte anche dai medici vengono prescritti dei recuperi troppo lunghi a certi soggetti bisogna tenere presente questo. Si crea una tensione fra medico e paziente atleta che può portare a difetti di informazione. Il medico sa che l’atleta in questione fa fatica a fermarsi ma va fermato. Propone uno stop di un mese confidando del fatto che se ha prescritto un mese l’atleta riuscirà a fermarsi almeno 15 giorni. Invece l’atleta soffre come un cane, si ferma un mese credendo che più è lungo il tempo di recupero e più sono i benefici dello stesso e poi quando parte, riparte come un treno e non si ferma più, togliendosi l’opportunità di recuperare in quei momenti di adattamento che richiederebbero nuovi brevi momenti di recupero. Insomma è facile creare un’informazione conflittuale fra medico e atleta dove uno spinge per allungare i recuperi e l’altro tende a minimizzare i segnali di sovraccarico perché di recuperi non ne può più. In questi casi sarebbe opportuna proprio una sana contrattazione dove i tempi di recupero vengono ridotti il più possibile e dove l’atleta si impegna a non ignorare nessun segnale di sovraccarico e ad essere più tempestivo possibile a fermarsi quando necessario.
In ogni caso la problematica del recupero è una problematica importante nel processo degli adattamenti che portano alla concretizzazione della cosiddetta “forma sportiva” e non deve essere considerato solo come strumento per prevenire gli infortuni ma proprio come vero e proprio elemento di costruzione della preparazione. Secondo tecnici affermati il successo della preparazione dipende per il 50% dalla correttezza dei carichi proposti e per il restante 50% dalla selezione delle corrette modalità di recupero. Siamo ben distanti dai tempi di quando si affermava che più l’atleta si allenava e meglio era. E forse siamo pure entrati nell’era nella quale abbiamo capito che non serve a niente recuperare troppo a lungo sperando che il recupero molto lungo possa sortire effetti miracolosi.
L’atleta moderno è un atleta ben sveglio e sensibile che capisce quando è il momento di recuperare e non si addormenta né sui recuperi troppo lunghi né sulle serie infinite di carichi potenzialmente pericolosi che in un primo tempo costruiscono la forma sportiva e poi tendono a sgretolarla.