Non ci va l’accento. Prove ripetute “e” fatica, non prove ripetute “è” fatica. Dobbiamo pensare perché sono state inventate. Se l’obiettivo era far fare più fatica agli atleti ci si poteva benissimo inventare di portarli a camminare in montagna con uno zaino pieno di sassi in spalla, ma ci sono tantissime strategie anche più a portata di mano per ammazzarsi di fatica senza necessariamente fare delle prove ripetute o andare a camminare su salite impervie.
Le prove ripetute sono state inventate con un altro obiettivo. L’obiettivo “era” (mi tocca scrivere “era”…) quello di riuscire a correre più o meno al ritmo gara senza ammazzarsi di fatica. Era un obiettivo tecnico più che un obiettivo condizionale. Non solo si tentava di affinare tecnicamente il gesto della corsa a ritmo gara ma si tentava anche di imparare bene il ritmo per poterlo poi ripetere in gara con una certa padronanza senza sbagliarlo. Era comunque un discorso di “apprendimento” e non di mera fatica. Poi è arrivato il vento dell’allenamento condizionale ed ha spazzato via tutto. Così al giorno d’oggi, per la maggior parte degli atleti, l’allenamento con le prove ripetute è quell’allenamento che “Aiuto, oggi mi tocca fare pista, c’è qualcuno che mi “tira” le prove ripetute?…” Se qualcuno ti tira le prove ripetute vuol dire che quelle prove ripetute sono le sue e non le tue. Le tue te le devi tirare tu e devi pure stare attento a come le corri perché se le corri ad un ritmo che non va bene per te fai un allenamento inutile, a volte addirittura dannoso, se è troppo intenso.
Quando vado al campo io ogni tanto trovo un “ex-discobolo” (guardando i risultati di una buona parte dei discoboli di adesso mi tocca dire che non è un “ex-discobolo” ma un discobolo vero e proprio visto che a 55 anni lancia meglio della maggior parte dei diciottenni) che mi minaccia: “Guarda che ti tiro!” Non vuol dire che mi “tira” le prove ripetute, vuol semplicemente dire che se corro troppo male (come, ahimè, sto prendendo l’abitudine di fare forse più per pigrizia che per “vecchiaia”) mi tira dietro un disco per abbattermi e porre fine alla mia agonia di ex-atleta. Io rido e scappo ma questa battuta la capiscono in pochi. “Tirare” in gergo tecnico è sempre più “fare l’andatura” e quindi andare a fare il ritmo ad un atleta che, se lasciato solo, probabilmente andrebbe più piano.
Allora io non voglio farmi “tirare” niente addosso dal mio amico che lancia ancora abbastanza distante e nemmeno voglio farmi “tirare” le prove ripetute da nessuno perché appartengo alla vecchia guardia dell’atletica in tutti i sensi. In primo luogo per il fatto che ho una certa età e “tirare” per me è un brutto e sconveniente verbo. In secondo luogo, e non è cosa del tutto trascurabile questa, perché filosoficamente la mia generazione riteneva che le prove ripetute andassero corse per studiare il proprio ritmo e non quello degli altri. Per noi “vecchi” farsi tirare le prove ripetute era una contraddizione in termini perché voleva dire risolvere in allenamento quello che poi era il problema della gara e cioè la scelta del ritmo. Se in allenamento hai un compagno di allenamento che ti risolve il problema del ritmo poi avrai bisogno dello stesso compagno che ti accompagna anche in gara con la stessa funzione. In breve hai bisogno della badante che ti porta a spasso perché non sei capace di impostare il ritmo giusto.
Detta così sembra offensiva per chi si fa “tirare” le prove ripetute. In realtà chi si fa “tirare” le prove ripetute lo fa per fare un allenamento di intensità elevatissima e si concentra sul fatto di produrre la massima intensità di corsa nelle singole prove ripetute arrivando a correre le ultime quasi ad esaurimento delle forze, sobbarcandosi livelli di stress che spesso sono paragonabili a quelli della gara, se non addirittura superiori.
La filosofia dei miei tempi era ben diversa: nelle prove ripetute tentavamo di correre meglio possibile illusi del fatto che l’affinamento tecnico prodotto in allenamento potesse in qualche modo trasferirsi in gara. Forse non era un’illusione del tutto infondata se è vero che, a parità di livello prestativo, correvano meglio gli atleti della mia generazione di quelli di adesso.
In fin dei conti non è cambiato molto, è stato solo aggiunto un accento, un accento che in ossequio all’imperativo dell’allenamento condizionale ha stravolto la preparazione: prove ripetute “è” fatica. Ma allora capisco anche perché i mezzofondisti al giorno d’oggi tendono a scappare verso le corse su strada.