Ad Udine avevo conosciuto il professor Franco Colle (scomparso pochi anni fa, nel 2017), leggendario tecnico della Libertas, già allenatore di Venanzio Ortis e che era il responsabile tecnico del settore mezzofondo della Libertas Udine. In quegli anni io ero al top della mia carriera e non a caso ero andato alla Libertas, uno dei pochi club del nord Italia che potevano permettersi il lusso di rimborsare gli atleti di un certo livello in modo consono all’impegno da essi profuso nella pratica agonistica. Soluzioni alternative non ce n’erano molte se non cercare di entrare in uno di quei gruppi sportivi militari che, di fatto, allora come oggi, sponsorizzano lo sport cosiddetto “dilettantistico”.
In realtà io avevo valutato anche quell’opzione ma il giorno che dovevo farmi vedere dai responsabili del gruppo sportivo che poteva prendermi fra le sue fila feci una gara talmente convincente ma talmente convincente che dopo un giro ero già fermo a chiedermi perché cavolo avrei dovuto rifare la visita per la leva militare visto che ero stato splendidamente scartato per scarsità toracica pochi anni prima.
Il giorno che andai a Trieste a gareggiare per farmi vedere dai responsabili della Libertas Udine, invece, fui un po’ più convincente e anche se nei primi 700 metri di gara pareva che fossi andato lì per fare una gita a Trieste negli ultimi 100 metri si capì che, se volevo, avevo un finale di gara non malaccio visto che con quel rettilineo più o meno ai 30 all’ora li presi tutti e riuscii a vincere. Non sono “quello dei 30 all’ora” per quel rettilineo finale memorabile che è rimasto uno dei finali più spettacolari della mia carriera di mezzofondista ma da lì parte la spiegazione di tutto.
Il prof. Colle rilevò subito la differenza fra le due gare (la prima non la vide ma gliela spiegai…) e cominciò con le sue considerazioni di stampo pseudo filosofico che mi entusiasmavano. Ormai in teoria e metodologia dell’allenamento le avevo già provate tutte e mi piaceva disquisire su argomenti di carattere generale che riguardavano l’approccio generale all’attività sportiva più che sui dettagli applicativi delle varie teorie alle singole sedute di allenamento. Disse che con quella condotta nella prima gara io avevo dichiarato a me stesso che in quel gruppo sportivo non avevo nessuna voglia di andarci (una confessione che posso fare chiaramente: a me l’idea di maneggiare un’ arma ha sempre fatto una paura terribile e anche se dicevano che quello era un finto problema per gli atleti comunque uno sportivo che fa parte di un gruppo militare che quando piglia in mano un’arma comincia a sudare anche se non c’è per niente caldo non è una cosa molto consona…) mentre con la gara di Trieste, non solo avevo confermato a me stesso l’opportunità di provare l’esperienza nel nuovo club, ma avevo pure tentato di far vedere che in certe gare potevo fare anche quello che volevo giocando l’ostentazione di una sicurezza che probabilmente non era realmente nelle mie corde. Insomma ero un “maestro” se scattavano le condizioni motivazionali giuste ma un disastro se queste non c’erano.
Da lì il prof. Colle arrivava alla “teoria dei traumi” che anche se è una teoria di Sigmund Freud per me è sempre stata e rimarrà sempre la teoria del Prof. Colle. Lui spiegava tutto dicendo che pochi momenti decisivi nella nostra vita condizionano tutte le scelte seguenti e questi “traumi” possono essere negativi ma pure positivi nel senso che è altamente “traumatica” in senso buono anche una forte emozione molto gradevole. Non a caso se mi dite “Trieste” io mi illumino perché da tanto sicuro che ero io penso di averci fatto forse la più bella gara della mia vita. Per cui sicuro un corno, è venuta fuori un’opera d’arte di quelle che ti riescono una volta sola nella vita ed è per quello che sono ancora lì a pensarci. Se una cosa così per me fosse stata routine di certo non la ricorderei così e posso dire che per certi versi è stata più routine la bidonata di gara di qualche giorno prima dove mi sono fermato a metà, quel giorno per certi motivi forse anche individuabili con un minimo di introspezione, altri giorni in altre gare per motivi che anche il miglior Freud non sarebbe stato in grado di indagare. Diciamo pure che se fossi stato un atleta di alto livello gli scommettitori non avrebbero mai potuto scommettere tranquillamente su di me.
La teoria dei traumi in senso positivo (pertanto traumi “belli”) mi viene in soccorso per spiegarvi perché io sono quello dei 30 all’ora anche se i 30 non sono quelli di quel rettilineo finale di Trieste ma quelli che se vedo un amministratore della mia città se non è mio amico scappa via e fa finta di non vedermi perché pensa: “Oddio questo è quello dei 30 all’ora adesso se gli passo vicino mi fa un pippone con qualche incrocio pericoloso, qualche semaforo problematico o qualche via che secondo lui deve essere certamente messa ai 30 all’ora perché è troppo pericolosa per i pedoni e per le bici…”.
Ho vissuto i tempi dell’austerity che ero bambino, sono state poche settimane ma per me sono durate un’eternità. E con questo contraddico quelli che dicono che le cose negative sono eterne e quelle positive durano un attimo. Per me le poche settimane dell’austerity sono state una vita ed è pure una vita che mi piacerebbe rivivere e davvero se succedesse qualcosa di simile nuovamente direi che in realtà si vive anche più di una volta.
Chi le ha vissute si ricorda certamente che erano tempi duri ma non fa nessuna fatica a capire (e lo si diceva già allora, non lo si è scoperto dopo) che per un bambino poteva essere una cosa magnifica. La città era per i bambini, non tutti i giorni, solo la domenica ma in quei giorni potevi andare dove cavolo volevi a vedere una città fantastica e penso che sia anche per quello che non ho più cambiato città. Qualcuno può semplicemente commentare: “Buon per te che hai avuto il culo di nascere in una città fantastica, pensa quei tuoi coetanei che negli stessi giorni, si sono resi conto che erano nati in una città squallida potendola visitare bene per colpa dell’austerity”. Sarebbe da fare un sondaggio fra i miei coetanei di tutta Italia per sapere se curiosamente c’è stato qualcuno che ha avuto questa triste sensazione. Io vi dico che in quei giorni apprezzavo anche le periferie non certamente fantastiche della mia città che giravo in lungo ed in largo perché volevo vedere tutto ma proprio tutto della mia città. Certo, il traffico infernale era un po’ un livellatore che rendeva un po’ grigio tutto ed appiattiva le differenza fra lo splendore di certi luoghi incantevoli e l’anonimia di luoghi meno caratteristici ma bisogna ammettere che nessun luogo della mia città senza auto era veramente squallido mentre con le auto… quasi.
E’ facilissimo che quel trauma (ripeto positivo, da paese dei balocchi) abbia fatto di me “quello dei 30 all’ora”, ma in realtà quello dei 30 all’ora lo divento in un momento ben preciso, una tranquilla sera di consiglio di circoscrizione di parecchi anni più tardi (eravamo già nel terzo millennio, l’austerity è del 1973). Quella sera, andato per difendere il limite dei 30 chilometri all’ora saggiamente richiesto dalle scuole nel mio quartiere e follemente contestato da un gruppo pure numeroso di automobilisti in preda allo stress cronico, alla supposizione sarcasticamente utopistica di un oppositore del limite dei 30 che ha dichiarato: “Allora, se questa è la filosofia, tutta la nostra città sarebbe da mettere ai 30 chilometri all’ora…” io invece di rispondere con un banalissimo: “Ma che discorsi sono, il nostro quartiere è più pericoloso per una lunga serie di motivi!…” ho risposto in modo secco, scioccante e folle: “Si”. Su quel sì, si sono guardati tutti senza dire una parola e le loro facce volevano dire inequivocabilmente solo una cosa: “Questo è completamente pazzo!”.
Sono ancora di quel parere sempre più ma la storia ha dimostrato che ero veramente pazzo ad ipotizzare una città ai 30 all’ora in quegli anni e la realtà quotidiana continua a dimostrarmi che sono altrettanto pazzo ad insistere sul concetto che se non abbiamo il coraggio di rallentare il traffico automobilistico in modo netto e deciso con scelte politiche altamente impattanti (una per tutte questi stramaledetti 30 chilometri all’ora in tutti i centri abitati) le nostre città continueranno a fare schifo e ad essere invivibili per pedoni e ciclisti. Non sono città che fanno schifo, sono città fantastiche ma sono ostaggio delle auto che le rendono puzzolenti, stressanti ed invivibili.
Per un certo periodo c’è stata una tabella elettronica che rilevava la velocità delle auto nel mio quartiere, l’hanno tirata via, purtroppo, perché metteva troppo a nudo il problema. Osservando le velocità dei vari mezzi su quella tabella come pedone ti rendevi conto di una cosa che non tutti comprendono e sulla quale non hanno mai ragionato. In un centro abitato fra una macchina che fa i 35 chilometri all’ora ed una che fa i 45 chilometri all’ora c’è un abisso. Non ho scritto fra i 35 ed i 55 chilometri all’ora. No, proprio solo 10 chilometri all’ora, sono solo dieci chilometri all’ora a fare la differenza fra la vita e la morte. In certi punti non c’è nessuno che prova a fare i 55 chilometri all’ora anche se sono assurdamente consentiti dalla legge in molte vie pericolose. C’è chi prova a fare i 45 e lì fa anche perché sono consentiti. Il pedone che viaggia su quelle strada a piedi o in bici percepisce che sta rischiando la vita ma non sa che quell’automobilista sta facendo i 45. Probabilmente capisce che sta rispettando il limite dei 50 ma è pericoloso, in ogni caso il pedone non reclama nessun diritto ad essere rispettato perché non c’è nessuno che considera che nei centri abitati dovrebbero comandare pedoni e bici, anziani e bambini. No, per prassi nei centri abitati ci sono i lavoratori che hanno fretta, la maggior parte di essi viaggiano in auto o in scooter e siccome hanno fretta, dove ci si riesce, senza andare a sbattere contro l’inferno di auto parcheggiate da tutte le parti fanno i 45, i 50 o anche i 55 chilometri all’ora se possibile, che tanto la multa per eccesso di velocità, se proprio c’è qualcuno che si azzarda a fartele, con il limite dei 50 chilometri all’ora scatta ai 58 chilometri all’ora. Su certe strade urbane dove c’è quel limite per riuscire a fare i 58 chilometri bisogna essere dei piloti di formula 1. Sembra che la sfida sia “Prova a superare il limite consentito, se ci riesci!…”.
La diatriba alla fine è sempre fra salute ed economia. Estremizzando pare una disputa fra città “campogiuochi” e città dei lavoratori. Dove i sostenitori della prima sono radical chic che non hanno un cavolo da fare e al limite sostengono il settore del turismo (che può solo beneficiarne di norme che rendono la città più vivibile) mentre i secondi sono i lavoratori indefessi che devono tenere determinati ritmi di lavoro e non possono fare i conti con le esigenze di anziani e bambini, magari stando pure attenti a quanto gas buttano nell’aria perché se sgasi tanto, visto che si va ancora a petrolio, poi l’aria puzza.
Io non riesco a capire perché non possano esistere lavoratori indefessi che quando si spostano nei centri abitati vanno ai 30 chilometri all’ora (fino ai 36 la multa non la prendono assolutamente) e riescono a lavorare anche con questo drammatico limite. Ma se fai così poi la città non è più delle auto e ti si parano davanti i bambini con la loro biciclettina fin che stai lavorando… E’ l’utopia di chi si sogna che si possa ancora lavorare a ritmi che rispettano tutti.
Se questa utopia non è perseguibile allora ci sono tante altre cose che si fanno nel nome della produzione che devastano l’ambiente e la qualità della vita e alla fine siamo tutti ricchi ma malati.
Siamo indubbiamente due partiti, al momento quello dell’iperproduzione e della corsa al benessere non curante dei temi ambientali è in netto vantaggio clamoroso al punto tale da far dire a questi che gli altri sono dei pazzi svitati radical chic che non hanno ancora capito come funziona l’economia.
Io osservo che nel lockdown della primavera scorsa dovuto al Covid se per qualche motivo strano avessero cominciato a farci uscire a piedi ed in bici prima ancora che liberarci nelle nostre comuni abitudini ci saremmo accorti di una cosa strana. Chiaro che gli automobilisti sarebbero insorti al grido di “Dobbiamo lavorare! Se non infettiamo a piedi a maggior ragione non infettiamo chiusi nelle nostre auto!”. Ci saremmo accorti che le nostre città senza auto sono fantastiche e sono vivibili in tutt’altro modo. un po’ come ai tempi dell’austerity. Purtroppo questa cosa non abbiamo avuto la possibilità di viverla ed in ogni caso c’è da augurarsi che non deva essere vissuta per colpa del Covid, ma un bell’austerity perché bisogna ripulire l’aria (che è pure vero e non è una balla) quanto lo sognerei…
P.s.: con riguardo alle fantastiche “zone 30” chiedete agli italiani quanti di loro sanno che nelle zone 30 le strisce pedonali non dovrebbero nemmeno esserci perché nelle zone 30 il pedone ha sempre la precedenza sull’automobile. E se facciamo che chi non sa questa norma restituisce la patente, quante patenti restano in tasca agli italiani? Facciamo 10.000 per esagerare? Gli altri 39.990.000 non hanno le idee molto chiare sui diritti del pedone.