Le critiche ai miei articoli sono sempre in agguato, anche gradevoli e più che giustificate, ormai comincio anche a dire abbastanza prevedibili perché seguono essenzialmente due filoni dai quali non riesco a scappare. Se è un articolo concreto, terra terra, che tratta i piccoli grandi problemi della fruizione di attività motoria vengo accusato di far politica. E’ così quando dico che a scuola non si fa abbastanza attività motoria, quando dico che le nostre città non sono pensate tenendo presente alla quota di movimento necessaria ad ogni cittadino per stare bene. Risultato: faccio politica ed io mi difendo dicendo che, a ben guardare “tutto” è politica. Anche la scelta di andare in macchina o in bicicletta è politica e, se proprio uno va in auto anche la scelta di andare a gasolio o a metano è politica perché alterando i tuoi consumi alteri l’economia ed alla fine pure la politica. Sono critiche concrete, anche piuttosto difficili da scansare e mi rassegno ad incassarle senza reagire più di tanto, mi preoccupa solo l’idea di non essere irruento ed offensivo nei confronti di nessuno.
La faccenda si complica e di tantissimo quando nei miei voli pindarici trattando di teoria dell’attività motoria vado a toccare temi che non sono analizzati molto frequentemente nella nostra era di cardiofrequenzimetri e macchine da palestra. In particolare quando tratto gli aspetti che sembrano correlati e quasi “astrattamente collegati” all’attività motoria. Non sto scrivendo di queste cose casualmente dopo l’ennesimo articolo dedicato agli aspetti emotivi del movimento. Il punto è proprio quello. Se provo, in modo pure goffo e rudimentale, a portare in campo le emozioni come importantissimo discorso per capire “tutte” le problematiche legate al movimento allora divento lo “scienziato pazzo” , anzi, siccome scienziato è un’etichetta che su di me chiunque capisce che è impossibile applicare… il pazzo e basta, magari pure scatenato.
E qui faccio molta più fatica a difendermi. Il pazzo dice che i pazzi sono gli altri ed io potrei confermarmi affermando che è pura follia tentare di comprendere realmente le dinamiche dell’attività motoria ignorando il vissuto emotivo di chi la va a vivere. L’attività motoria si vive, non è come una medicina che si somministra, si vive ed è un qualcosa di un po’ più complesso. Per difendermi partendo dalle cose stupide parto proprio da una cosa documentata a livello scientifico a proposito della somministrazione dei farmaci così coinvolgo gli scienziati che tanto critico di miopia con riferimento alle questioni sulla teoria del movimento. Ebbene, è proprio a livello scientifico che è stato dimostrato che esiste addirittura un effetto placebo nella somministrazione dei farmaci. L’effetto placebo sarebbe quell’insieme di eventi che si verificano (reali, concreti non finti e frutto di fantasia) nella somministrazione di un certo farmaco che… non è farmaco perché è acqua fresca ma il paziente non lo sa.
Difendo un attimo gli scienziati e ammetto che in quelle situazioni, dove scateniamo l’effetto placebo, in realtà più che di “somministrazione” del farmaco dovremmo parlare di “messa in scena della somministrazione”. Se fosse per la sola somministrazione, teoricamente, dovremmo iniettare il finto farmaco di nascosto e penso proprio che tutto l’effetto placebo andrebbe a farsi benedire perché non mi pare strano pensare che il paziente che non sa che gli hai iniettato quel “finto” farmaco non potrà sviluppare alcuna reazione psicologica. Il paziente non sa niente, non c’è vissuto psicologico. Allora la somministrazione di un farmaco che scatena l’effetto placebo è un qualcosa in più di una semplice somministrazione, è una messa in scena. Tutto ciò per dire che è comunque documentato scientificamente che c’è un’ importante componente emotiva già in un paziente che compie l’atto (consapevole) di assumere una medicina. Per fortuna (o per sfortuna a seconda dei punti di vista…) questo effetto placebo è piuttosto contenuto e comunque nella stragrande maggioranza dei casi molto inferiore all’effetto del farmaco vero e proprio altrimenti la farmacologia avrebbe già chiuso i battenti da un tot. di tempo.
Alla luce di ciò possiamo pensare che la “somministrazione” (e non si può certamente chiamarla così…) di una seduta di allenamento possa essere esente da contenuti emotivi di primaria importanza? Se c’è vissuto emotivo già nel buttare giù una pastiglietta che ci si mette pochi secondi quanto ce n’è in una seduta di allenamento che può tranquillamente durare due ore e dove il cuore spesso ti batte ad una frequenza che è oltre il doppio della tua normale frequenza cardiaca? Non sono solito trattare le “frequenze cardiache” che ormai mi nauseano per quanto è abusato il riferimento ad esse in tutta la preparazione moderna ma, per un attimo, accettiamo di considerare pure quelle. Butti giù una pastiglietta con il cuore regolarmente a 60 battiti al minuto, la cosa dura pochi secondi e poi riprendi la vita di prima, oppure, svolgi una seduta di allenamento dove il cuore supera tranquillamente i 130 battiti al minuto, per un bel po’ non per pochi istanti, poi devi cambiarti, devi farti la doccia e pian piano torni alla vita di prima. Può avere un impatto emotivo irrilevante tutto ciò?
Dobbiamo smetterla di considerarci dei meccanici del movimento, dei tecnici e/o addirittura degli scienziati, non siamo nulla di tutto ciò. Abbiamo la grossa responsabilità di tentare di capire cosa succede quando un nostro allievo fa cose molto importanti che, come minimo, hanno un significato simbolico molto più grande di quello di un’assunzione di una pastiglietta. Sappiamo che quello non è certamente solo un significato simbolico ma un qualcosa di ancora molto più determinante. Abbiamo la consapevolezza che, per quanto siamo fortunati, qualcosa del processo di adattamento innescato dagli stimoli motori che proponiamo ci sfuggirà certamente perchè è troppo complesso. Ammettere che qualcosa di questo ciò che ci sfugge è proprio dovuto alla complessità delle reazioni emotive del nostro allievo è un atto di umiltà che ci è dovuto, sarebbe semplicemente ipocrita trincerarsi dietro a presunti dogmi scientifici di una scienza che non esiste per evitare di confrontarsi con ciò di molto complesso e quasi incomprensibile che caratterizza la nostra professione.
E’ proprio vero, quando tiriamo in ballo l’aspetto emotivo del movimento non ce la caviamo più. E’ più facile fare schede e standardizzare la preparazione con lo stampino, ma non è corretto, non è sincero e non è nemmeno deontologicamente accettabile. Siamo forse la professione dove anche il migliore dei tecnici sbaglia di più in assoluto ma abbiamo un vantaggio: mentre altri “non possono” sbagliare perché anche un minimo errore può pesare molto, troppo, per il paziente noi l’unico errore che non possiamo fare è sopportare l’inattività del nostro allievo. Di fronte ad un allievo inattivo noi siamo sempre colpevoli, se è infortunato perché non dovevamo far si che si infortunasse se è fermo per sovraccarico o crisi esistenziali da eccesso di attività fisica comunque è per colpa nostra e se è un sedentario cronico che non riesce a scrollarsi di dosso il torpore delle sedentarietà è comunque per colpa nostra perché chi deve far cambiare opinione ai sedentari siamo proprio noi. Gli altri sbagliano quando fanno qualche manovra azzardata, noi sbagliamo quando non rivolgiamo molta attenzione a chi non si sta muovendo o si sta muovendo in modo palesemente sbagliato. Per certi versi dovremmo essere contenti perché per farsi del male con l’attività motoria ce ne vuole, non è certamente come sbagliare a prendere una pastiglietta, te ne accorgi molto prima, non è necessaria nessuna lavanda gastrica e ci puoi porre rimedio in tutta tranquillità senza fretta. Il guaio è che a volte nella rettifica sbagli ancora di più che nella proposta iniziale ma non per questo bisogna perdersi d’animo. Non esistono protocolli d’intervento universalmente accettati, non c’è nulla di scientifico. Siamo solo un branco di pazzi scatenati. Ma i più pazzi di tutti, a mio parere, sono quelli che vanno avanti a cardiofrequenzimetro e schede prestampate, come se fossimo fatti con lo stampino e non avessimo una nostra individualità complessissima, sublime e, udite udite, da tentare di comprendere anche negli aspetti emotivi per aver qualche speranza di sbagliare meno.