Tempo fa scrissi un articolo un po’ particolare intitolato “I mitocondri oppure un buon libro”. Era un articolo particolare nel senso che trattava l’attività sportiva partendo un po’ da distante. Non so quanto sia riuscito a spiegare il concetto che avevo in testa con quell’articolo ma penso che comunque non andasse a trattare cose del tutto fuori da ogni logica, almeno non come può sembrare leggendolo in modo superficiale. Quando adesso titolo “Parole e numeri” voglio tornare alla carica su quel concetto e, se ci riesco, voglio far tentare di capire come troppo spesso venga data la precedenza agli aspetti quantitativi della preparazione rispetto agli aspetti qualitativi della stessa. E’ chiaro che gli aspetti quantitativi sono più facilmente misurabili, codificabili e si possono manipolare con astrazioni nemmeno troppo complesse. Gli aspetti qualitativi invece sfuggono ad una classificazione facile e ben descrivibile, non si prestano ad essere trattati con numeri e possono certamente generare un bel caos interpretativo.
E’ facile dire a che frequenza cardiaca sta correndo un atleta, basta dire un numero, è difficile dire “come” sta correndo perché quel “come” che si riferisce ad aspetti qualitativi del gesto sportivo non è riassumibile in un numero, almeno non ci siamo mai riusciti ed io mi auguro che non ci riusciremo mai perché ogni inquadramento di un aspetto qualitativo in una gabbia di numeri è comunque un intervento troppo riduttivo.
La comunicazione fra atleta ed allenatore deve avvenire essenzialmente con le parole più che con i numeri, perché anche se i numeri possono servire a trattare le velocità di corsa, le distanze, le ampiezze e le frequenze non possono comunque fornirci indicazioni per aspetti qualitativi troppo importanti della prestazione sportiva per poter essere trascurati.
Abbiamo provato ad infittire questa comunicazione allenatore-atleta con altri numeri ma non ne abbiamo trovato molto giovamento. Se una volta ci si accontentava di definire con numeri le andature ed eventualmente gli angoli di lavoro (in biomeccanica) di un determinato gesto adesso ci si spinge a “dare i numeri” per frequenze cardiache, livelli di emoglobina e di lattato nel sangue, consumo di ossigeno e altri parametri che effettivamente possono e devono essere trattati con un numero ma la cui analisi non porta a valutazioni decisive nella comprensione degli aspetti qualitativi dell’allenamento sportivo.
Così, riprendendo il mio articolo enigmatico, arrivavo a sostenere che un buon libro può influire sull’allenamento anche di più di una variazione del numero dei mitocondri. Di più, con un uscita un po’ a sorpresa, arrivavo a dire che l’unico sistema per alterare davvero il numero dei mitocondri è proprio quello di leggere un buon libro. E qui vuol dire un po’ andarsele a cercare perché questa uscita sembra davvero grottesca e chi scrive così non pare assolutamente animato dalla buona volontà di fare chiarezza su un argomento molto controverso.
In effetti cercavo immagini ad effetto per far capire che noi con il sistema quantitivo possiamo intervenire solo in modo grossolano ed è vero che possiamo alterare la composizione del sangue di un atleta anche intervenendo in modo esogeno ma poi certe modificazioni fini non siamo in grado di farle nemmeno in quel modo. E’ chiaro che uno che ha un sangue arricchito, con più emoglobina, probabilmente avrà anche un buon numero di mitocondri in quel sangue arricchito, ma le modificazioni fini (e questo termine dovevo usare forse più che il fuorviante “mitocondri”) non possono essere indotte da un intervento esogeno che per mirato e ponderato che sia è sempre artificiale.
Alla fine arrivavo a dire che l’intervento esogeno è anche leggere il buon libro e forse quello è anche il più decisivo ed impattante sulla storia dell’atleta perché se agisce sul Sistema Nervoso Centrale allora vuol dire che va proprio a bersaglio, non è assolutamente un intervento superficiale e va ad agire sulla centralina di comando.
Insomma le parole hanno una forza, sono decisamente più difficili da usare dei numeri ma se usate in modo opportuno riescono a produrre anche delle modificazioni tangibili nel processo di allenamento e alla fine dopo giri piuttosto tortuosi, possono portare addirittura a variazioni del numero di mitocondri nel sangue senza essersi messi lì ad infilare ad uno ad uno i mitocondri nel sangue come per fortuna ancora non si riesce a fare.
L’analisi dei processi qualitativi dell’allenamento è molto difficile da fare, si può provare con le parole più che con i numeri e proprio per questo sfugge a codificazioni universali facilmente descrivibili. In medicina dello sport tutto ciò non ha senso ed il fatto che la medicina dello sport abbia un po’ invaso anche le tematiche della teoria e metodologia dell’allenamento sportivo forse spiega perché si usano sempre di più i numeri e sempre meno le parole per trattare di allenamento.
Al di là di tanti discorsi, di tante “parole” appunto, vince chi ottiene i risultati immediati (e sottolineo immediati perchè questo è un concetto chiave per capire tutta la problematica…) più significativi e più facilmente documentabili ed è per questo che l’alta medicalizzazione dello sport non è stata per nulla frenata in questi ultimi decenni.
Ciò porta ad un atteggiamento un po’ schizofrenico da parte degli alti dirigenti sportivi che da un lato si ergono a paladini di una lotta al doping che per certi versi può sembrare anche anacronistica e pure un po’ ipocrita e dall’altro lato tollerano la diffusione di un’alta medicalizzazione dello sport di alto livello che anche se porta a risultati immediati indiscutibili, nel lungo periodo frena l’evoluzione dei sistemi di allenamento perché viene costantemente data la precedenza all’analisi degli elementi quantitativi della preparazione rispetto a quelli qualitativi.
Se in medicina dello sport l’alta standardizzazione dei protocolli è una necessità imprescindibile perché non si può rischiare con la salute dell’atleta, in teoria dell’allenamento non è così. I medici usano i numeri, i tecnici se non vogliono autolimitarsi troppo devono saper usare anche le parole. Con questo non sto scrivendo che il medico fa le cose razionali mentre il tecnico fa le cose folli, che il medico pensa alla salute dell’atleta mentre il tecnico gliela guasta, ma intendo che la funzione della medicina dello sport deve essere solo una funzione di controllo a tutela della salute dell’atleta che non può informare il processo di allenamento perché questo non parte dai protocolli terapeutici bensì dalla teoria dell’allenamento che per necessità di cose non è ancora ingabbiata in una serie di numeri ma veicolata con le parole. Questo a mio parere, se poi qualcuno sostiene che ormai la teoria dell’allenamento non esiste più ed esistono solo una serie di parametri bioumorali che vanno costantemente monitorati e controllati chimicamente, allora abbiamo due visioni diverse del processo di allenamento.
Io dico sempre comunque che l’allenatore deve essere un prudente anche quando giustamente innova ed esperimenta le sue strategie di allenamento perché se poi il medico si accorge che con la preparazione ha fatto disastri allora ha ragione a voler intervenire per informare tutto il processo di allenamento, ma se così avviene vuol dire che c’è qualche tecnico scriteriato che non esita ad esagerare pur di ottenere risultati a tutti i costi.
Se vogliamo acquistare fiducia dobbiamo puntare su preparazioni che facciano migliorare l’atleta senza sconquassarlo, su preparazioni razionali senza carichi mostruosamente gonfiati in volume. Altrimenti i medici hanno ragione a declassarci e a dire che forse anche noi è bene che ci limitiamo ad usare i numeri. Ma il buon allenatore può fare di più e se lavora bene il suo atleta con i numeri del medico avrà poco da fare i conti.