La nostalgia può essere anche paralizzante se la subisci passivamente, non è un sentimento da sopprimere, può essere dolce, addirittura sublime ma a volte va anche razionalizzata a costo di confinarla in un territorio un po’ più ristretto di quello che lei vorrebbe prendersi.
Assistevo ai Campionati di Società di Atletica pochi giorni fa, una fase regionale dove le società sono impegnate ad acquisire quei punteggi che consentiranno loro di accedere successivamente alle varie finali nazionali. Devo ammettere che ci sono pure dei segnali di ripresa, non ho assistito ad un’edizione depressa di questa fase dei “societari”, tutt’altro. Però, a pochi giorni dalla scomparsa di Cassius Clay mi è venuto istintivamente da pensare al titolo di un film che parla di lui e che parla di altri tempi. Il titolo è quello del film (già citato da me su questo sito, mi è piaciuto moltissimo): “Quando eravamo re”.
Allora, per non lasciarmi andare alla nostalgia più sconfinata, mi sono subito detto: “Adesso mi analizzi subito cosa c’entra questo titolo con questi Campionati di Società…” Noi non eravamo Cassius Clay e George Foreman, però eravamo re, ed eravamo pure in tanti, questo è il punto. Non ho pensato a quando riuscivo a vincere qualche gara e capitava pure di arrabbiarmi se in qualcuna, pur essendo arrivato vicino al vincitore, mi rendevo conto di non essere stato molto accorto tatticamente. Ho pensato a quando “eravamo” re, vincenti e perdenti, perché protagonisti di un’età dell’atletica che faccio fatica ad immaginare che possa tornare. Ma allora il problema è mio e di adesso. I ragazzi di oggi si saranno resi conto che questa è stata un’edizione più che discreta dei Campionati di Società e saranno pure convinti che l’atletica sta crescendo. Io non riesco a guardarli serenamente, senza pensare che manca qualcosa, che noi eravamo re e questi mi sembrano meno re di quanto lo fossimo noi. Ma il limite è sempre mio, questi sono re, anche se in modo diverso. Allora, sempre per non farmi sopraffare dalla nostalgia che ti attanaglia ancora di più quando non riesci a spiegare certe cose, mi sono costretto ad analizzare ulteriormente a tentare di capire cos’è che manca.
Mi sono dato una risposta in numeri assurda, da soggetto autistico (il corridore di lunghe distanze non è decisamente estraneo all’atteggiamento autistico…) ed ho immaginato: “E’ come se oggi si contasse in modo diverso, ma talmente diverso che forse contavamo in modo sbagliato anche noi oltre trent’anni fa. Una volta si contava in modo un po’ assurdo, così: Uno, due, due, due, due, due, due, tre, quattro, cinque, sei e cosi via fino a 1000 e anche ben più di mille. Praticamente eravamo un po’ balbuzienti sul due ma poi ci riprendavamo dal tre in poi per contare fino a numeri molto alti senza più intoppi. Adesso contano così: Uno, trentaquattro, trentacinque, trentasei e poi vanno avanti in modo regolare fermandosi un po’ prima di noi, diciamo a 600-700 ben prima di 1000, ma insomma si conta abbastanza salvo che per quel curioso buco fra uno e trentaquattro.
Cosa vuol dire questa filastrocca numerica da soggetto autistico. Che un aspetto molto evidente dell’atletica di un tempo è completamente assente dall’atletica di adesso. C’era pieno di numeri due, adesso non solo mancano i numeri due ma si comincia a contare dal 34 in poi salvo rilevare che il numero uno, quasi stranamente, esiste ancora.
Ci sono ancora i campioni, ma sono isolati e non so se invidiarli o compatirli perché, anche se sono dei padreterni, sono talmente isolati dal resto del contesto agonistico che possono pure permettersi il lusso di sbagliare gara che tanto vincono lo stesso. I campioni di una volta non potevano sbagliare, per loro i Campionati di Società erano già un banco di prova e se li disertavano non era perché questa gara non era stimolante ma, al contrario, perché in ritardo di forma potevano patire brucianti sconfitte ad opera di numerosi out-sider in grado di approfittare del minimo errore.
Io ero di una squadra civile (mai stato in gruppi sportivi militari ed il giorno che mi avevano detto che se facevo un determinato tempo potevo entrare in un gruppo sportivo militare non sono nemmeno arrivato in fondo alla gara, forse per evitare ogni problema…) e la soddisfazione più grande per noi atleti delle squadre civili era battere qualcuno delle squadre militari. Non era antimilitarismo, il fatto è che vedevamo gli atleti delle squadre militari come dei veri e propri professionisti (è così ancora oggi) e batterli era di un gusto indescrivibile. Praticamente era il dilettante che va a battere il professionista. Il gusto era accentuato dall’idea che davvero i dirigenti dei gruppi sportivi militari andavano a fare il cazziatone ai loro atleti che perdevano da atleti di squadre civili. La cosa era bilaterale: per noi era un gusto batterli e per loro era un incubo perdere da noi.
Questa cosa al giorno d’oggi non è più possibile. Non solo il divario tecnico fra atleti di squadre civili e squadre militari è spropositato e rende improponibile il confronto, ma, per dire come stanno le cose, i gruppi sportivi militari, che pur hanno ridotto il numero dei loro atleti, faticano a trovare sulla piazza tutti gli atleti di cui hanno bisogno per formare il gruppo. Una volta ce n’erano talmente tanti che anche quelli lasciati a casa da quei gruppi potevano tranquillamente vincere una gara importante quale i Campionati di Società. Eravamo re.
L’atletica contemporanea è rimasta orfana dei numeri due, ci sono i campioni e ci sono anche abbastanza comparse che praticano atletica con uno spirito forse anche migliore del nostro che eravamo un po’ troppo competitivi, quasi professionisti senza esserlo. La grande differenza è che nel contesto di un Campionato di Società di allora con oltre mille partecipanti c’erano certamente almeno due o trecento sognatori che erano lì per iniziare la “scalata al vertice” mentre fra i partecipanti di un Campionato di Società di adesso che si sognano di diventare veramente forti ce n’è si e no qualche decina. Eravamo bambini allora e sono adulti adesso? No, semmai è il contrario perché si è abbassata notevolmente l’età media dell’abbandono dei praticanti e, per dire, adesso, anche la categoria allievi viene a dare man forte alla categoria assoluta che ne ha estremamente bisogno, mentre una volta tale contributo da parte dei più giovani non era nemmeno concesso dal regolamento. E’ cambiato proprio che c’è questa voragine fra i numeri uno e gli altri che sembra incolmabile e che rende un po’ meno entusiasmante la faccenda per gli inseguitori.
Non si può spiegare ad un’atleta di adesso cosa vuol dire battere un atleta di un gruppo sportivo militare, non ha senso e non è utile farlo, però è opportuno dare la capacità di sognare anche a chi prende dei distacchi un po’ pesantini perché quei distacchi possono essere colmati solo continuando a sognare. Non è obbligatorio vincere assolutamente. Per come vedo io lo sport però è obbligatorio provarci con la giusta filosofia, senza arrabbiarsi se non si vince. Lo sport dove non si prova mai a vincere forse non esiste proprio, forse nemmeno nelle categorie amatoriali dove la prudenza è estrema ma, se ci sta, una bella vittoria fa piacere anche a ottant’anni.