L’italiano è una delle lingue che usa di più il linguaggio non verbale, forse bisognerebbe dire che gli italiani sono quei personaggi che usano di più il linguaggio non verbale, in ogni caso accade che anche la lingua corrente risenta di queste abitudini e pertanto che sia nato prima l’uovo o la gallina poco cambia. Non è che l’italiano sia stato progettato per essere parlato assieme ad una marea di segni, solo che visto che questa abitudine esiste (vai a capire se è per le continue dominazioni o chissà per cosa…) allora accade che delle molte migliaia di parole disponibili sul vocabolario si finisca per usarne solo poche migliaia e, grazie all’avvento dei telefonini e di un certo tipo di cultura della televisione e dei “social”, probabilmente poche centinaia più che alcune migliaia. Tant’è, che tu dica “tutto bene” con un certo tono della voce o che tu dica “tutto bene” con un tono della voce decisamente diverso fa oscillare la stessa espressione verbale da un confortante “Va davvero tutto bene..” ad un molto diverso “Fa veramente schifo ma facciamo finta che vada bene…”.
L’allenatore deve tenere ben presente questa caratteristica della lingua italiana, o meglio, del modo italiano di comunicare le cose, per riuscire a stabilire con l’atleta una comunicazione più efficace possibile.
Stando sul tema “tutto bene” probabilmente e, aggiungo per fortuna, inflazionato nella lingua dell’allenatore come il banalissimo ma significativo “OK”, vorrei fare un semplice esempio per spiegare come anche nell’ottica di un commento positivo si possa andare con il semplice cambiamento di mimica su due interpretazioni completamente diverse.
Prendiamo il “tutto bene” abbastanza asciutto (non troppo asciutto altrimenti vuole già dire qualcos’altro) tradizionale, classico, senza fronzoli. A meno che il tecnico non dica balle (e allora lì si apre un altro tipo di comunicazione molto complessa…) vuol dire che va effettivamente bene, in modo normale, non in modo esaltante ma va bene, è quasi un po’ come se non ci fosse nulla da dire. Si può tradurre anche in un “Poche ciancie, andiamo avanti…” ma non ha un significato negativo. Vuol dire che si può proseguire su quella strada senza problemi.
Se quel “tutto bene” diventa enfatico con il tecnico che avvicina anzitempo l’allievo molto affaticato e non aspetta nemmeno che sia questo ad avvicinarsi a lui, può avere significati diversi. Il più semplice è che va davvero molto bene, il meno semplice, anche questo senza nessun connotato negativo, può voler dire che “In realtà non va tutto bene, c’è un problema o ci sono una serie di problemi ma sono talmente convinto che siamo sulla strada giusta che prevengo il tuo commento schifato e ti corro incontro a dirti che non ti devi preoccupare, bisogna far così anche se momentaneamente pare che faccia tutto schifo”. Io mi sono trovato istintivamente ad usare questo tipo di linguaggio e mi rendo conto che lo applico proprio quando c’è un atleta un po’ incerto che ha bisogno di essere rinforzato con un commento positivo ed ho la sensazione che lui abbia percepito una situazione di disagio. Così può accadere che i miei atleti si accorgano che quando sono particolarmente premuroso vuol semplicemente dire che quella particolare situazione non è del tutto entusiasmante. All’opposto, in presenza di una situazione potenzialmente esaltante, nom faccio proprio nulla, aspetto che l’atleta venga lì, magari un po’ preoccupato chiedo se ha fatto fatica e quello può essere anche il segnale che c’è stato un qualcosa di decisamente positivo, sul quale meditare e chiedersi se non stiamo un po’ bruciando le tappe.
Se ci pensiamo questo atteggiamento di accompagnamento del linguaggio verbale con segni che possono anche essere un po’ discordanti con il linguaggio stesso non è e del tutto casuale. Il tecnico deve essere un po’ un pompiere e deve saper filtrare le emozioni dell’atleta che a volte possono essere un po’ violente e turbare il processo di allenamento invece che favorirlo. Se in un certo contesto si sa che può arrivare la prova difficile ma che questa prova è pienamente giustificata da quella situazione, ha ragione il tecnico a sgombrare il campo da dubbi e porre l’atleta in una situazione di fiducia per limitare gli stress. Se, al contrario in una situazione di potenziale giubilo il fattore di stress è dietro l’angolo e bisogna proprio stare attenti a non commettere prevedibili errori, allora fa bene il tecnico ad essere caustico e prudente a a mettersi ad analizzare bene la questione anche quando sembrerebbe solo il momento del giubilo e del festeggiamento.
Man mano che il rapporto tecnico atleta si evolve anche questo tipo di comunicazione si perfeziona e si arriva al punto che non c’è nemmeno più bisogno di usare parole, basta uno sguardo o un gesto ed è detto tutto.
In ogni caso io sono convinto che il trasferimento dell’energia dal tecnico all’atleta (almeno in un primo tempo deve sempre essere così, poi anche l’atleta sa restituire energia al tecnico ma questa è un a fase successiva del rapporto) deve avvenire con un tipo di comunicazione che necessariamente (non solo per caratteristiche della lingua italiana e del nostro linguaggio moderno) sia verbale ma anche non verbale.
Ho scritto di “energia” più che di passaggio di informazioni perché molte volte ritengo che il tecnico sia un fornitore di motivazioni e quindi energia da trasformare più che una fonte di informazioni. In realtà ritengo che le informazioni per una buona qualità del rapporto tecnico atleta siano quelle che devono viaggiare in senso opposto, dall’atleta verso il tecnico. Grazie a quel tipo di informazioni il tecnico sa capire cosa è più opportuno fare in quel momento.
Le applicazioni sono tante, lo soluzioni sono tante e tante, tantissime, sono le situazioni di partenza, per chiudere queste mie osservazioni sulla comunicazione non verbale mi piace citare l’esempio della signorina dell’autostrada che anche se banale e reiterato è comunque abbastanza illuminante. La signorina dell’autostrada non è che dica molte cose: ti dice di introdurre il biglietto e te lo dice con una voce metallica che vuol dire essenzialmente che se c’è qualche problema qui c’è proprio da augurarsi che ci sia un operatore in carne ed ossa perché non è per niente scontato. Quando questa signorina dopo un po’ di volte che hai introdotto il biglietto risponde sempre nello stesso modo e con la stessa voce metallica non vuol più dire la stessa cosa della prima volta ma vuol dire “E’ inutile che metti dentro il biglietto cento volte, io sono un robot, il tuo biglietto non lo voglio e se non trovi un operatore nei paraggi sono proprio tutti cacchi tuoi, non hai assistenza…” Al contrario quando la signorina ti dice “Attendere l’assistenza dell’operatore…” anche se lo dice sempre con tono metallico come se non gliene fregasse niente, è come se dicesse. “Guarda, io sono un po’ deficiente e alla prima stronzata mi inceppo però i miei datori di lavoro al tuo pedaggio ci tengono, non sono del tutto stupidi e prima o poi vedrai che arriva pure un omino vero, abbi fede, non disperare…”.
Ecco ho fatto l’esempio di un robot che ha dentro solo frasi standardizzate ma già ha un suo comportamento che ci fa pensare più cose, figuriamoci un essere umano che ha dentro un’infinità di possibili risposte come sia complesso da decifrare. Il linguaggio è certamente un miscuglio di parole e gesti. La comunicazione va tradotta valutando bene entrambi e modulando bene entrambi, proprio per questo sappiamo che farà fatica ad essere precisa al 100%, non ci riesce assolutamente il robot e non ci riusciamo nemmeno noi. Non speriamo di approdare ad una comunicazione efficace al 100%, è un’ illusione utopistica che ci può pure allontanare dall’obiettivo ragionevole di centrare una comunicazione efficace almeno un po’ più di quella generalmente scadente della signorina del casello dell’autostrada, sempre gentile ma troppo limitata e… metallica.