Quando mi dicono che faccio troppo conto sulla realtà soggettiva e trascuro quella oggettiva mi incancrenisco su posizioni che mi portano molto distanti dal sapere comune. Intanto devo sottolineare che non sono un medico e come tale posso permettermi il lusso di fare meno i conti con la realtà oggettiva quando tratto la mia materia e poi su questa distinzione ci marcio perché è proprio nel momento in cui sostengo che l’attività motoria non è una scienza che mi pongo in atteggiamento molto distante da chi da netta precedenza alla realtà oggettiva.
In medicina non c’è tanto da filosofeggiare e giocare con le ipotesi accattivanti e fantasiose della realtà soggettiva. In medicina ci sono dei protocolli ben precisi a fronte di patologie ben precise e che a te piaccia o no la cura per il mal di pancia è quella mentre la cura per reni è quell’altra. Che tu sia appassionato ai film di Robert De Niro o a quelli di Woody Allen poco cambia, la cura è sempre quella e se vuoi affrontare il mal di pancia con la medicina tradizionale hai quel protocollo terapeutico, altrimenti ti affidi alla medicina alternativa ma quello è tutto un altro discorso che porta molto distante. Per inciso, anche se devo precisare che sono un po’ scettico su certe rigidità della medicina tradizionale io devo ammettere che di quella alternativa mi fido ancora meno e pertanto posso pure essere definito un “tradizionalista” della medicina. Molto semplicemente ho paura a stare male e ne ho talmente tanta che quando sto male ho addirittura paura di essere curato male. Per evitare l’inconveniente tento di stare bene punto e basta ma in ogni caso questo aggancio con la medicina “alternativa” mi serve per far capire un concetto chiave che ruota attorno all’attività motoria ed alle mie presunzioni su di essa.
Non è che un tecnico che da molta importanza alla realtà soggettiva possa essere definito un tecnico alternativo, perché qui, a differenza che in medicina, la realtà soggettiva è più importante di quella oggettiva e la mia eccentricità sta proprio nel reclamare questo primato quando la scienza appare volersi avvalere del suo metodo anche per formulare fantomatici protocolli rigidi pure in tema di movimento.
La medicina è rivolta ai malati ed il malato non può scegliere la sua terapia, al limite, sottoscrivendo certi moduli, può rifiutarla ma comunque la terapia è sempre formulata dal medico. In tema di attività fisica abbiamo a che fare con soggetti sani, non con malati e se ignoriamo l’infinità del mondo interiore di ogni individuo con tutte le sue assurdità, contraddizioni, fantasie e illogicità commettiamo un errore imperdonabile perché il destinatario di attività motoria (che fino a prova contraria non è una terapia ma, al limite, un intervento di “prevenzione” destinato comunque ad un soggetto sano) è liberissimo di mandarci a quel paese anche se gli proponiamo il più razionale e collaudato dei protocolli di preparazione fisica per una certa menata di sport. Qui la realtà individuale è predominante ed è giusto che lo sia. Non dico che l’attività fisica sia un capriccio perché non lo è ma che al soggetto “X” piaccia un certo tipo di attività fisica che sul soggetto “Y” ha fatto solo che danni non vuol dire assolutamente nulla. Al limite si potrà avvisare il soggetto “X” che il soggetto”Y” allenandosi così ha avuto degli inconvenienti ma la certezza dell’efficacia o non efficacia di un certo piano di preparazione indirizzato ad un determinato soggetto non la può avere nemmeno il più preparato degli allenatori. Pertanto non esistono protocolli rigidi ed indicazioni per la prassi dalle quali non ci si può discostare perché la prassi è proprio il fatto che il tecnico deve principalmente capire con chi ha a che fare. Ogni atleta è un mondo a sé stante.
Il primato dell’individuo in tema di attività motoria è incontestabile e si può proprio affermare che l’individuo è al centro dell’universo. Non conta nulla se fino a quel momento per fare il record del mondo dei 100 metri si sono allenati tutti in un certo modo perché quando arriva il soggetto che vuole allenarsi in modo completamente diverso è liberissimo di farlo.
Ai giorni nostri abbiamo la pessima abitudine di trascurare troppo la componente motivazionale dell’attività fisica e di tendere a comportarci con questa più o meno come nei protocolli terapeutici. Si crede che ci sia un’unica risposta ad un determinato obiettivo di attività fisica e si cerca quella riposta senza preoccuparsi di vedere se il percorso per arrivare a quella risposta sia divertente o meno.
L’attività fisica come pizza insostenibile per rimodellare il fisico ce la siamo inventata in tempi abbastanza recenti ed è un’aberrazione dell’attività motoria certamente non un progresso sui tempi andati. Una volta il requisito principale dell’attività motoria era la giocosità della stessa, non a caso la parola sport deriva da “distrazione” dove “distrazione” non è da intendersi come “distrazione muscolare” che è quell’accidenti parente dello strappo che aggredisce chi ha fatto qualche movimento un po’ maldestro, ma “distrazione” nel senso di svago e così io dico sempre che se in una partita scapoli contro ammogliati qualcuno tiene acceso il telefonino quello non è sport, nel senso che non è distrazione perché continui a pensare alle disgrazie della vita. La componente emotiva nello sport è fondamentale.
Questo, se vogliamo è il grande vantaggio dell’attività motoria su altre discipline. Nell’attività motoria, soprattutto in quella individuale, si può anzi a volte si “deve” andare fuori dal coro altrimenti è tutto molto prevedibile e mentre l’alta prevedibilità è una manna in medicina, nello sport è invece una noia mortale che uccide il concetto di giocosità dello sport. Nello sport un personaggio come George Best è un eroe ed è su personaggi del genere che la leggenda dello sport si può rinverdire ma in medicina da un chirurgo stile George Best scappo a gambe levate perché li non voglio l’estro e l’imprevedibilità ma la razionalità e l’alta prevedibilità dell’intervento.
Purtroppo in tante situazioni stiamo andando verso uno sport fortemente medicalizzato e dunque abbastanza prevedibile perché gli sponsor non ci stanno a rischiare grandi investimenti con alti margini di imprevedibilità e così abbiamo campioni che si ripetono sempre più con una costanza di rendimento che un tempo era difficile ottenere con preparazioni sportive non supportate da alcun intervento farmacologico.
Qui c’è scienza contro arte. Se diamo grande spazio all’arte la componente soggettiva è fondamentale, se ci fermiamo agli aspetti oggettivi dobbiamo ammettere che non si possono assolutamente più trascurare i progressi della medicina ma quelli però è opportuno precisare che, oltre che un’opportunità, sono anche un limite all’evoluzione dello sport.