L’ATLETA CHE NON VA

E’ facile allenare un atleta che va forte senza problemi. Ottiene ottimi risultati anche senza allenarsi in modo massacrante ed il problema semmai è farlo confrontare con altri atleti forti che lo possano stimolare ad ottimi risultati. Un atleta così più che di un buon allenatore forse ha bisogno di un buon manager che disciplini le sue capacità di prestazione e capisca quando è il caso di metterle a frutto e quando invece conviene preservarle.

Un buon allenatore invece si vede quando è costretto a fare i mezzi miracoli per “far andare” l’atleta che non va, per far migliorare quello che non ha per niente l’aria di poter diventare un campione e fa pure fatica a migliorare i suoi risultati già abbastanza modesti. Quando questo atleta comincia a migliorare in modo sensibile il miracolo, più che mezzo, è quasi tutto intero perché questo atleta comincia avere anche più possibilità di quello molto prestativo di migliorare ulteriormente.

Per fare un paragone con l’atletica è un po’ come un atleta che lancia con la rincorsa ed un atleta che lancia da fermo. Se un atleta è molto forte lancia distante anche senza rincorsa ma non c’è dubbio che quello che lancia con la rincorsa ha delle possibilità in più.

E’ forse questa la motivazione per cui i grandi campioni difficilmente erano atleti che già emergevano fra i primissimi a livello giovanile. Chi esplode fin dalle categorie giovanili poi è come se restasse senza rincorsa e non si trova attrezzato ad affrontare quei miglioramenti decisivi che lo possono catapultare al vertice anche nelle gare con gli assoluti.

Alcuni dicono che è semplicemente un discorso di maturazione fisica, alcuni atleti maturano prima e chi matura prima offre ottimi risultati nelle categorie giovanili ma poi evidentemente non ha più miglioramenti apprezzabili da poter giocare perché il suo fisico è al top già prima dell’età del massimo rendimento.

Altri dicono che è una questione psicologica: chi vince tutto subito, fin dai primi anni di attività sportiva, si scarica psicologicamente e non carica quella sete di successo che è tipica di chi inizia perdendo e matura in modo sempre più convinto la voglia di vincere.

In ogni caso, per chi arriva da distante fare anche l’ultimo passo che proietta verso i risultati di vertice è probabilmente più facile e logico che per chi ha sempre navigato in posizioni di eccellenza. Se per questo tipo di atleti la norma è il piazzamento di grande rilievo ma non il miglioramento netto delle prestazioni per chi arriva dagli inferi delle prestazioni pessime il miglioramento clamoroso diventa la norma e può restare tale anche quando tutto diventa più difficile. Insomma pare che la caratteristica peculiare dell’atleta di livello più che la capacità di saper vincere sia quella di saper fare miglioramenti molto significativi. Chi parte già da alti livelli prestativi, fin da bambino, al paradosso è impossibilitato ad entrare in questo ingranaggio del miglioramento clamoroso perché per migliorare tanto bisogna partire dal basso.

Ora nessuno ci sta a tornare indietro con un atleta giovane che offre già elevate prestazioni ed il giochino resta come fare per mantenere questo atleta integro e desideroso di emergere fino all’età del massimo rendimento. Grande problema che tutto sommato potrebbe anche non presentare soverchie difficoltà almeno in un primo momento (le difficoltà arrivano dopo quando si nota che i miglioramenti decisivi stentano ad arrivare). Quello che invece è il gioco da maestro è come motivare gli atleti meno performanti, quelli meno prestativi e magari anche in ritardo di crescita, quelli che se per sbaglio hanno la possibilità di mettersi alla pari degli altri verso i vent’anni poi avranno anche più possibilità degli altri di emergere nella fase finale e decisiva della carriera sportiva. Problemi con questi atleti ce ne sono tutti i giorni fin dalla tenera età ed è una lotta psicologica a convincere tutti che vale la pena provarci anche se i risultati non arrivano.

In una società che vive sul risultato bisogna convincere in primo luogo l’atleta che non ci sta a perdere a 13 anni come a 20 (si comincia a saper perdere più o meno a trent’anni quando la capacità di perdere non serve più a tanto perchè ormai quello che dovevi dire come atleta delle categorie assolute l’hai detto…) poi si tratta di convincere i genitori dell’atleta che per il solo fatto che molte volte sono quelli che portano il ragazzo al campo sportivo oltre a pagare la quota di iscrizione (un tempo il ragazzo andava da solo al campo sportivo e la quota di iscrizione non esisteva nemmeno…) sono in ogni caso parte in causa. Poi bisogna convincere i professori che c’entrano sempre più con la possibilità di poter condurre un’attività sportiva molto impegnativa conciliandola con gli impegni scolastici che sono sempre più pressanti in termini di concentrazione e di tempo. Diciamolo chiaramente: la scuola attuale è mediamente più stressante e porta via più tempo di quella di un tempo e se ciò non è forse vero per quella elite di secchioni che un tempo si dedicavano anima e corpo alla scuola lo è quasi certamente per la massa degli studenti che al giorno d’oggi, anche giustamente, non ci stanno a farsi bocciare e a prendere la patente di asini con la scioltezza con la quale molti soggetti un po’ più disincantati ci riuscivano un tempo (al grido di “si vive una volta sola e per fare fatica ci sarà tempo quando ci sarà da andare a lavorare…”).

Pertanto il miracolo del tecnico moderno sta nel combattere queste lotte con nemici invisibili (ma che in realtà non lo sono poi tanto) che sono ottime scuse per far troncare anzitempo la carriera sportiva ai soggetti non molto performanti. Da questo punto di vista la capacità di supportare psicologicamente l’attività sportiva rendendola gratificante anche nei frangenti nei quali potrebbe non esserlo è fondamentale e bisogna essere un po’ degli equilibristi nel capire come fornire i giusti stimoli per far proseguire la carriera sportiva all’atleta. Molto spesso quando il confronto con l’ambiente agonistico è impietoso (è facile che a 18 anni resistano solo i più forti e le competizioni diventano sempre più difficili da affrontare) bisogna essere capaci di costruire anche una grande capacità di introspezione e di valutare con importanza i miglioramenti individuali più che questi inseriti nel contesto agonistico. L’atleta che migliora costantemente certamente prima o poi si troverà anche in una situazione agonistica gratificante ma non è per niente detto che questa arrivi a 16 anni o a 18, anzi per assurdo questa età potrebbe essere proprio quella dove è più difficile primeggiare perchè sono rimasti solo i talenti che si allenano molto e sono decisamente convinti a puntare ad una carriera sportiva di alto livello.

E’ un po’ un cane che si morde la coda e sta proprio ai tecnici interrompere questo circolo andando a costruire uno zoccolo duro di atleti che resistono a competere anche se non più giovanissimi e non ancora ad alti livelli. Se gli atleti che resistono con risultati non eclatanti sono molti allora si trascinano in un movimento decisamente sano ed entusiasmante, altrimenti la mannaia dell’elevata competizione si può abbattere con un efficacia devastante su un grandissimo numero di atleti che magari ancora in età scolare hanno l’unico demerito di non aver ottenuto risultati eccezionali dopo otto o anche dieci anni di attività.

La perseveranza nello sport è fondamentale e spesso il grande campione è semplicemente un atleta quasi normale che ha saputo attendere con pazienza il momento giusto.