IMPORTANZA DELLE QUESTIONI CONTINGENTI NEL PROCESSO DI EVOLUZIONE DEL TALENTO SPORTIVO

Una questione spesso trascurata nel valutare la carriera di un atleta è quella riguardante l’insieme delle “situazioni contigenti” che a vario titolo condizionano l’intera esistenza dell’atleta più che il solo ambito della sua carriera sportiva.

Ed allora, fin troppo banale e ricorrente ci si rifà all’esempio dell’atleta africano che pur avendo presupposti pessimi per poter emergere nello sport, parte da una situazione di necessità economica per cui alla fine è più facilitato lui nella rincorsa ad ottimi risultati che non un ragazzino di un qualsiasi paese industrializzato che non ha grandi problemi esistenziali.

Altrettanto mitologiche le questioni legate agli atleti russi di un tempo che vedevano nello sport l’unica ancora di salvezza per poter avvicinare il mondo occidentale, tanto ambito da quelle parti.

Ai giorni nostri, su un altro livello ma non per niente ridicolo, la questione degli atleti dei gruppi sportivi militari che vedono in quei gruppi una strategia per rimandare almeno temporaneamente il problema della disoccupazione problema sempre più sentito in Italia negli ultimi anni.

Ed in modo ancor più diffuso ma non per questo meno preoccupante, anzi tutt’altro, la questione degli studenti pressati dalla scuola in modo esagerato che non trovano più il tempo per poter affrontare con serenità un’attività sportiva che richieda un impegno quotidiano di un paio d’ore (che poi diventano necessariamente tre nella nostra società del tanto tempo vissuto in auto perché i mezzi pubblici sono poco efficienti…).

Insomma pare che le questioni contingenti contino quasi di più di quelle di natura strettamente tecnica nel processo di evoluzione del talento sportivo e le varie dispute potrebbero essere anche spostate da quella della normale disquisizione sulla metodologia di allenamento a quella ancora più complessa dell’analisi dell’influsso di queste situazioni contingenti nella pratica sportiva.

Non è per niente facile infatti capire come queste situazioni determinino le varie evoluzioni perché se ad un primo esame tutto può apparire scontato dopo una disamina più attenta ci si accorge che invece le dinamiche sono terribilmente difficili da comprendere.

Altro esempio banale che però a questo punto non è nemmeno tanto banale con riferimento allo sport di casa nostra, quello del funzionamento dei gruppi sportivi militari come elemento motivante nei confronti del rendimento agonistico. Senza azzardare troppo si può rilevare come in un primo momento la motivazione che offrono questi gruppi sia molto elevata, quasi esagerata nel senso che l’atleta di sedici-diciassette anni fa di tutto per bruciare le tappe e trovarsi alla fine della scuola pronto per poter entrare in uno di quei gruppi. A quell’età in realtà l’atleta farebbe bene a muoversi con discrezione e a costruirsi come atleta con l’obiettivo di rendere al massimo fra i 25 ed i 30 anni quando si verificano le condizioni per poter ottenere i migliori risultati sportivi. Purtroppo però la situazione sociale è tale per cui se l’atleta non riesce ad entrare in un gruppo sportivo militare entro i 20-22 anni rischia di perdere un treno perché non trova il tempo per allenarsi come si deve.

Lo stesso gruppo sportivo militare, che in età giovanile motiva fortemente perché tanta è la smania di volervi far parte, è quello che poi, verso i 24-25 anni, può portare anche ad un certo rilassamento. Come può accadere questa cosa? Per motivi complessi ma non insondabili. L’atleta, come tanti altri coetanei, si rende conto che più spinge sull’acceleratore e più rischia di farsi del male. Se si fa male in modo grave può restare dentro al gruppo sportivo militare per un paio di stagioni ma poi è costretto a mollare l’osso e anche se non è tenuto a licenziarsi può essere costretto a terminare la carriera di atleta per mettersi a svolgere i normali servizi che svolgono tutti i comuni mortali che non sono campioni dello sport. E’ evidente che di fronte ad una prospettiva del genere il campione non troppo campione che con un certo tipo di preparazione vivacchia all’interno del gruppo sportivo militare non ha nessun interesse a forzare troppo per un paio di anni per approdare a risultati che tutto sommato non portano ad una nuova situazione economica decisamente diversa. Insomma il gioco non vale la candela, o l’atleta è un supercampione che forzando la preparazione può vincere un’Olimpiade e allora è pure disposto a rischiare l’infortunio, a fare un po’ il gladiatore per poter tentare il colpaccio oppure se è un buon atleta ma non di doti eccelse preferisce insistere su una preparazione importante ma non troppo gravosa per restare più anni possibile nello sport di buon livello supportato dal gruppo sportivo militare che accetta anche chi non vince l’Olimpiade a patto che garantisca buone prestazioni per la squadra militare.

E questa è una questione italiana, poi ci sono quelle estere dove per esempio il blocco sovietico ti fa capire che si stava meglio quando si stava peggio nel senso che i campioni di un tempo non riescono più a sfornarli anche se adesso c’è più libertà ma il problema… è proprio quello.

Gli africani invece ti fanno capire che più che questione di motivazione è possibilità di mangiare perché tu porti un africano in Europa, lo fai mangiare come si deve e quello anche se di fare atletica non gliene frega niente comunque i risultati te li fa perché fa meno fatica a fare il campione dell’atletica che l’impiegato postale. Insomma le situazioni contingenti sono tante e diverse e, per dire, io mi batto praticamente tutti i giorni sul campo non per inventare nuove ideali strategie di allenamento per i ragazzi bensì per inventarmi qualcosa che possa motivare i ragazzi ad insistere con lo sport anche se il tempo per una preparazione razionale non lo trovano.

Allora scherzo dicendo che tempo per finire gli studi ne hanno ma che per fare atletica come si deve non ne hanno poi molto, loro non capiscono che tale scherzo è la più candida delle confessioni sulla loro situazione esistenziale ma anche se lo capissero sono comunque molto più responsabili (o vecchi?!?) del sottoscritto e non ci stanno assolutamente a barattare una promozione scolastica con dei buoni risultati sportivi.

Le situazioni contingenti condizionano il vissuto sportivo in modo determinante. Noi non possiamo modificarle né abbiamo il diritto di provarci perché in tale propensione sarebbe grottesco che convincessimo uno studente secchione a studiare meno per affrontare meglio lo sport, Tanto meno potremmo reinventarci l’U.R.S.S. per mettere nuovamente i ragazzi sovietici nella condizione di emergere ed infine, sarebbe tanto bello ma non ci riusciamo proprio, che mettessimo tutti gli africani nella condizione di mangiare come si deve così di campioni da lì ne vengono fuori talmente tanti che monopolizzano tutto lo sport.

Restiamo chiusi nel nostro angolino di studio della realtà di campo dove a volte le cose più determinanti avvengono proprio fuori dal campo. Nostro compito, a prescindere dai risultati sportivi, è anche fare in modo che la realtà di campo condizioni in modo positivo la realtà fuori dal campo. E quello forse è un traguardo ancora più importante del raggiungimento dei risultati sportivi.

Per quello io molto spesso ai ragazzi dico che del risultato non me ne frega proprio nulla ma ci tengo che si diffonda l’entusiasmo per la pratica sportiva. Poi andrò all’inferno perché questo entusiasmo confligge decisamente con una scuola che pretende troppo. Ma di questo non ne sono nemmeno troppo sicuro perché all’inferno potrebbe andarci pure quel professore che boccia un allievo che si impegna abbastanza ma non ci sta a studiare quattro ore al giorno per raggiungere la promozione.