Che il danaro non renda felici non è un luogo comune, è una realtà incontestabile. A volte si tende a fare un po’ di confusione sull’argomento pensando che la povertà è in grado di rendere infelici, e su quello siamo d’accordo, ma non è automaticamente provato che visto che la povertà può dare esiti drammatici la grande ricchezza dia esiti di segno opposto. Se fai una dieta troppo povera di sali la tua salute ne risente ma non è che se mangi sale dalla mattina alla sera stai molto bene.
Sono quelle cose consequenziali sbagliate che consideriamo per giungere a conclusioni affrettate su argomenti abbastanza importanti. Per esempio quando è crollata l’ideologia comunista per un po’ ci siamo illusi che il sistema capitalista alimentato da un consumismo sfrenato fosse il miglior sistema per giungere alla felicità. Siamo giunti ai giorni nei quali ci siamo resi conto che non è così e forse siamo ancora più tristi di quei comunisti che hanno visto sgretolarsi l’ideale comunista.
Sullo sport siamo abituati a pensare che possa dare la felicità in quanto sistema per accumulare ricchezze. Da questo punto di vista il campione più felice dovrebbe essere quello che è riuscito a strappare gli ingaggi più consistenti. Ma anche lì non è così. Perché il campione più felice è quello che ama di più il suo sport e lo riesce amare anche quando da delusioni e non fa vincere un bel nulla. Il campione che ama il suo sport solo finché vince non è un campione innamorato del suo sport ma è semplicemente innamorato del successo.
Nemmeno la reiterazione costante dei successi è garanzia di felicità anzi si è visto che chi vince molto spesso e senza grandi fatiche tende ad assopirsi ed a provare meno entusiasmo che nei successi iniziali. Insomma la felicità costante e continua non è di questo mondo e anche il campione “cronicamente” felice è un po’ una immagine da mondo delle favole.
Lo sport comunque, a volte, può rendere felici anche se per brevi momenti. Difficile che il danaro riesca fare altrettanto. Il danaro può risolvere problemi esistenziali ma se uno non è felice di suo può avere tutte le scarriolate di danaro che vuole che non riesce a trasformarsi in una persona felice. Probabilmente uno dei colmi dell’infelicità è proprio la persona straricca ma triste che si rende conto che può aumentare le sue ricchezze a dismisura ma queste non saranno mai utili per dare la felicità. Nello sport la felicità è un momento e così è più facile che concretizzi un momento di felicità epica un atleta che non ha mai vinto nulla di uno che ha già vinto tanto. E’ quella situazione a far credere erroneamente, a volte che anche il danaro possa dare la felicità. Ci sono dei poveri cronici che come per incanto risolvono improvvisamente i loro problemi di povertà. In un momento si sentono felici perché hanno sconfitto la povertà non perché hanno conquistato la ricchezza. In questo caso la gioia è la cessazione del dolore. Come uno che va dal dentista viene tolto il dente ed in quel momento è felice. Ma la felicità non è l’estrazione del dente in sé per sé quanto la cessazione del dolore. Nello sport invece è diverso: non è che la vittoria sia fonte di gioia in quanto cessazione della sconfitta, la vittoria è fonte di gioia perché, soprattutto per chi non ha mai vinto nulla, vincere è terribilmente divertente. E l’unico modo per alimentare la gioia di vincere è stare un po’ senza vincere.
Le più grandi felicità nella storia dello sport sono vissute da out sider che non erano favoriti per la vittoria.
Io stesso ho vissuto la felicità da fuori nello sport, non vedendo rivali che mi abbiano battuto in modo inaspettato in atletica (io ero molto facile da battere e non era difficile prevedere di potermi battere) ma con riferimento a squadre di pallavolo di ragazzine allenate da me che sembravano imbattibili, ma prima o poi la sconfitta, e anche sonora, arrivava sempre e magari per opera di una squadra che avremmo potuto superare facilmente. Come allenatore avevo la nomea di essere un pessimista, uno che vedeva la sconfitta sempre dietro l’angolo anche quando era chiaro che era molto più probabile vincere. Così a volte diventavo poco attendibile. “Ha detto che perdiamo ma l’ha detto perché ha i suoi fantasmi esistenziali… non è vero.”. In questo modo non riuscivo mai a preparare la mia squadra alla sconfitta incombente che prima o poi arrivava e bruciava sempre tantissimo. Così mi consolavo studiando le facce degli avversari che ci avevano battuto ed erano volti di una felicità smisurata, mi rendevo conto quanto fossero temute le mie squadre per la gioia che riuscivano a scatenare negli avversari quando ci battevano. Forse sono stato più bravo come allenatore di squadre scarse e mi è capitato di vedere le felicità anche sui volti di giocatori delle mie squadre scarse ma, essendo felice anch’io ho avuto meno tempo per comprenderli a fondo. Come allenatore di squadre scarse non ero per nulla confortante. Concreto ma non rassicurante. Sdrammatizzavo sì, ma quanto a dare fiducia su una vittoria imminente non davo molte speranze. Al contrario tendevo a preparare sul fatto che la vittoria poteva essere ancora molto distante anche se ormai era un pezzo che eravamo stufi di perdere. Così quando arrivava la vittoria era ancora più esaltante perché quasi insperata. Ricordo delle vittorie ottenute da mie allieve che mi hanno fatto il gesto dell’ombrello perché dicevo che non ce la facevamo e, anche se da ragazzine giovani giovani non è il massimo dell’educazione e della riconoscenza che ti puoi attendere, sono stati i momenti più belli della mia carriera di allenatore di pallavolo nella consapevolezza che suggerire un profilo basso e umile era stata l’arma migliore per giungere alla vittoria prima e nel modo più entusiasmante. Quando sai che in un successo sportivo hai giocato un tuo ruolo importante non conta molto che questo ruolo sia evidenziato in modo eclatante perché è una soddisfazione intima che nessuno ti può togliere e poi quel gesto dell’ombrello era la consacrazione di un atteggiamento che certamente era stato produttivo per vincere: non biasimavo le mie atlete se perdevano ma le caricavo certamente molto in vista di una ipotetica quanto improbabile vittoria. Per loro quella vittoria diventava ancora più importante ed è giusto investire emozioni nello sport. Nei festeggiamenti ci stava benissimo di mandare a cagare pure l’allenatore malaugurante ed ho una grande nostalgia di quelle purtroppo poche volte che sono stato mandato a quel paese in quel modo…
Nel calcio a 5 ricordo un trionfo di una squadra amatoriale ma con un’altro sapore. Trionfo quasi come sconfitta di un incubo. Avevamo vinto tutte le partite del campionato regolare, quasi in modo noioso. Eravamo l’unica squadra che, pur a livello amatoriale giocava un calcio a 5 che era vero calcio a 5 e non semplicemente calcio giocato su spazi ristretti. La finale fu un incubo perché come finale secca poteva rubarci in un’ora ciò che per tutto l’anno avevamo dimostrato di meritare ampiamente. Vincemmo alla grande ma con gran pathos perché quando ti senti obbligato a vincere non puoi apprezzare il successo fino in fondo.
I successi più belli sono quelli inaspettati o quelli almeno che non tutti si aspettano da te. In quei momenti, si può arrivare ad essere felici, chiaramente non per l’Eternità. Ma lo sport non ha la presunzione di dare la Felicità eterna. Diciamo che ha la presunzione di dare brevi attimi di felicità che il danaro, tanto osannato ai nostri giorni, non ha la possibilità di dare.