Mi lamento sempre perché mi arrivano troppe domande su come fare per avere la pancia piatta e definire meglio i glutei e quando arriva la domanda giusta vado in crisi perché rispondere non è per niente facile. Mi arriva la domanda sulla supercompensazione, tosta come poche. Rispondo in qualche modo e dico che non pubblico perché siccome il lettore mi ha fatto i complimenti per il sito… è inutile che mi auto incensi e pubblichi questo. Questo mi piglia in castagna e replica “Certo, ma non è necessario che pubblichi la domanda integrale (penso di non averlo quasi mai fatto… n.d.r.) tratta pure solo la supercompensazione…”.
Ecco, fregato in piena regola e devo riuscire come minimo a spiegare perché.
Ho già scritto, anche se troppo poco, di supercompensazione ed ho scritto che se ne discute poco perché è un argomento ostico nel quale la categoria rischia di fare brutta figura perché se c’è una cosa che si può scrivere è che per quanto questo argomento sia molto importante per comprendere le dinamiche del processo di addestramento sportivo, non ci capiamo ancora nulla, o meglio siamo riusciti a capire che tutti i tentativi di inquadrarla, di definire o ipotizzare dei tempi di concretizzazione della stessa sono andati a vuoto.
L’argomento supercompensazione non si può ignorare, è troppo decisivo per centrare i giusti recuperi e questi talvolta sono anche più importanti dell’allenamento stesso, il problema è che si procede a tentativi, per timide ipotesi e non si riescono a scoprire delle leggi che riescano a far comprendere con più precisione questo argomento.
Sono tanti gli aspetti della supercompensazione che ci sfuggono. In primo luogo la sua durata. quasi di sicuro non è una durata uguale per tutti gli stimoli allenanti e se è quasi sicuro che ne esiste una di circa 48 ore che riguarda l’aspetto muscolare del recupero è quasi altrettanto sicuro che ne esistono altre di durata diversa che riguardano aspetti organici ed anche neurologici del recupero. Così, trattando di discipline di resistenza, ci può essere quel carico di allenamento che ci impiega anche un mese per essere recuperato. Ma lo stesso carico che per certi soggetti può essere recuperato in un mese per altri può essere recuperato in soli 15 giorni e per altri ancora in due mesi o addirittura un anno. Come qualcuno ha intuito sto alludendo alla mitica maratona che interessa molti appassionati e che a seconda del fatto che sia corsa con spirito amatoriale come una mezza scampagnata o con il più complesso intento di provare a fare il record del mondo può essere recuperata in poche settimane oppure, forse nemmeno in un anno come sostengono alcuni che se hanno in programma di vincere la maratona olimpica si guardano bene dal tentare il record del mondo anche un anno prima e non per scaramanzia ma perché pare che un record del mondo ti possa mettere in crisi anche per più di un anno anche se il leggendario Gebresilassie è riuscito a reiterare record mondiali in anni consecutivi.
Questo discorso porta direttamente in campo quello legato alla qualità dello stimolo allenante (o “non allenante” a seconda dei punti di vista) che è chiaramente collegata con i tempi di concretizzazione della supercompensazione. Facciamo finta che si riesca a scoprire una splendida legge di correlazione fra intensità dello stimolo e durata dei tempi di supercompensazione, una volta formulato questo splendido collegamento come si farà a determinare qual’è l’intensità di carico corrispondente ad un determinato soggetto in un determinato momento? Le variabili sono quasi infinite e bisogna ammettere che pur considerando il concetto della supercompensazione decisamente importante si agisce proprio al contrario. Tentiamo di comprendere la qualità di uno stimolo somministrato proprio in base ai tempi necessari per la supercompensazione. Non riusciamo a prevedere qual’è il carico migliore per un certo obiettivo, tentiamo di capire se abbiamo centrato il carico in base ai tempi di recupero di quel carico.
Faccio un esempio ancora con la mitica maratona (ormai è quasi un linguaggio comune…) per essere più chiaro possibile. C’è l’abitudine, secondo alcune teorie, di correre metà della distanza di gara (la famosa “mezza” di 21 chilometri) più o meno al ritmo gara o poco più piano due o tre settimane prima della gara. Se un atleta esegue questo allenamento e dopo tre settimane non lo ha ancora recuperato, più che dire che ha sbagliato allenamento, bisogna ipotizzare che forse ha sbagliato obiettivo. A quel punto ha anche sbagliato allenamento perché si è creato uno stato di affaticamento non opportuno a pochi giorni dalla gara ma se tutto funzionava a dovere quella “mezza” di allenamento doveva essere recuperata in circa due settimane e mettere proprio in grado di funzionare al meglio in vista della gara.
Ci capiamo tanto poco di supercompensazione quanto poco ci capiamo di corretta intensità degli stimoli allenanti e se un atleta arrivasse a capire quanto sta caricando nell’immediato, senza attendere i tempi della supercompensazione per capirlo, sarebbe già a buon punto.
Per cui, come non sono chiari i tempi, non sono chiare nemmeno le intensità ideali per innescare al meglio la supercompensazione. Sappiamo (e su questo siamo più o meno tutti d’accordo) che stimoli diversi innescano tempi diversi di supercompensazione.
Poi vi sono tipologie di allenamento che possono più facilmente innescare certi tempi di supercompensazione e altre tipologie che ne innescano di diversi ma siccome non siamo tutti uguali queste ipotesi vanno verificate sui vari soggetti.
Insomma per l’incrocio di una gran massa di dati è tutto altamente empirico e alla fine anche eventuali scoperte suffragate da una certa costanza di accadimento rischiano di avere valore individuale. Grazie allo studio della supercompensazione un certo atleta riesce a capire come razionalizzare meglio la sua preparazione oppure un allenatore riesce a razionalizzare con successo la preparazione di un certo atleta ma nel momento in cui va ad applicare quei principi ad un altro atleta fallisce clamorosamente perché le leggi non sono le stesse. Qualche fisiologo potrebbe obiettare che per certi versi siamo quasi tutti uguali e se i tempi di metabolizzazione di una certa cosa sono quelli per un soggetto più o meno devono essere quelli anche per un altro soggetto. Tutto fila liscio se non osservo che quando mangio del tonno in scatola mi torna su non so per quante ore mentre se mangio un gelato posso fare la mia miglior gara anche solo dopo pochi minuti e questa è forse l’unica cosa che mi accomuna al leggendario Steve Ovett (infatti quando me l’hanno raccontata ho commentato: “Ah, piace anche a lui il gelato?!?”). Non siamo tutti uguali anche se obiettivamente il soggetto che recupera una maratona di alto livello in due settimane pare che abbiano ancora da inventarlo, ma quello che la recupera in più di un anno e non si rende conto che è così quasi di certo l’hanno già inventato ma si fa fatica ad individuarlo.
La supercompensazione è un argomento spinoso ma certamente interessante, non bisogna vergognarsi a trattarne anche se si brancola nel buio ma studiarla può dare certamente indicazioni interessanti per ipotizzare le migliori strategie di allenamento. Per conto mio riusciamo a capirne di più se variamo abbastanza il carico di allenamento e tentiamo di mettere in relazione queste variazioni con le varie reazioni. Chiaramente bisogna variare ad arte perché se cambiamo troppo non riusciamo più a creare nessuna correlazione certa. In tale contesto “correlazione certa” è forse una parolaccia allora diciamo semplicemente che bisogna avere un’alta sensibilità per proporre al nostro fisico una serie di stimoli che ci possano fare ipotizzare con una certa attendibilità determinate modalità e tempi di supercompensazione. Già a parole è fin troppo incasinata, figuriamoci nei fatti sul campo… Non per questo non vale la pena provarci.