Non poche perplessità ha destato il mio ultimo articolo su “I tre livelli della prevenzione”. Se i miei articoli vengono letti con l’idea di studiare un qualcosa di scientifico si parte subito con il piede sbagliato e si rischia di prendere lucciole per lanterne. Le mie sono opinioni, contestabili o condivisibili finché si vuole ma pur sempre opinioni e non nuovi “dogmi” da proporre alla comunità scientifica. Quando tratto una improbabile analisi dei “tre livelli di prevenzione” non intendo assolutamente contestare quanto stabilito e codificato dalla medicina in tema di prevenzione con riferimento alla diagnosi. Dico solo che quella è un certo tipo di prevenzione, importantissima, fondamentale, che deve certamente essere orchestrata e condotta dai medici ed è talmente importante che io… non la chiamo nemmeno prevenzione ma solo norme di corretto impiego degli strumenti di indagine diagnostica. A casa mia la prevenzione è un’altra, è quella che si applica ai soggetti sani e dunque non contempla nessun livello, nemmeno basso, di patologia (che sono sanciti e giustamente determinati dai medici) deve essere condotta dai miei colleghi usando il movimento e non le medicine e se è incentivata dai medici, ma possibilmente non influenzata dalle loro opinioni in tema di attività motoria, forse è anche meglio.
Inutile negarlo, importante la collaborazione fra medici ed insegnanti di educazione fisica ma fra queste due categorie permane cronicamente (e penso che sarà sempre così) un atavico ed eterno conflitto.
I medici si occupano dei malati, gli insegnanti di educazione fisica si occupano dei sani, più precisamente del “movimento” dei sani (e non della “dieta” dei sani come milioni di italiani continuano a credere…). Se un insegnante di educazione fisica si occupa di medicina per migliorare le prestazioni fisiche di un suo allievo non ha capito nulla e va giustamente internato in manicomio, se un medico si occupa di movimento indirizzato ad un sano e pretende di gestirlo senza consultare un insegnante di educazione fisica non va certamente internato in manicomio come il mio collega che fa l’errore precedentemente descritto ma insomma, non è carino, è poco corretto e soprattutto rischia di fare caos e disinformazione in un ambito molto importante che dopo rischia di avere ricadute addirittura sul sistema sanitario. A Cesare quel che è di Cesare. Spiace dirlo perché si rischia di peccare di presunzione e diventare antipatici ma i medici, di movimento indirizzato ai sani, non ci capiscono proprio nulla.
Dopo può pure venire fuori che un medico allena un discobolo che fa risultati sorprendenti. Quel medico ti dirà che il suo atleta fa uscire il disco dalla mano con una velocità pazzesca e anche se non esce con il giusto grado di inclinazione va molto distante ugualmente perché esce velocissimo. Quel discorso può pure stare in piedi e può anche essere che quel medico si vanti di aver fatto fare ottimi risultati a quel discobolo. Resta il fatto che quello non solo non è un buon allenatore ma proprio “non è” un allenatore ma solo un medico che è riuscito ad alterare i risultati di un atleta. Se l’importante è il risultato è pure possibile che i medici frequentino sempre di più i campi sportivi perché non c’è dubbio che con un certo tipo di medicina si è in grado di alterare i risultati sportivi. Vengono alterati in modo determinante, in modo del tutto legale (ed è questo che la gente che si scandalizza sul doping non sa o vuole far finta di non sapere) e pertanto molti atleti e soprattutto molte federazioni decidono di ricorrere a questo tipo di assistenza. Ovviamente l’esempio del discobolo era un mero esempio, la categoria dei lanciatori non me ne abbia a male è assolutamente tutto lo sport che si avvale di un certo tipo di assistenza medica per ottimizzare la prestazione di alto livello, forse anche la disciplina degli scacchi e la pesca sportiva.
Tutto ciò è abbastanza normale anche se poco romantico e tende ad offuscare un po’ l’immagine dell’allenatore artista che con insondate doti difficili da descrivere forgiava il talento sportivo del campione di un tempo. Adesso è tutto un po’ più standardizzato, monitorato costantemente e ci sono un po’ meno sorprese per buona pace degli sponsor che non hanno bisogno di sorprese ma di investimenti sicuri.
Dove sta la follia e dove la saggezza in tutto questo discorso? La follia sta nel pensare che gli insegnanti di educazione fisica possano condurre un piano di prevenzione delle patologie da sedentarietà su base nazionale quando non riescono nemmeno a governare lo sport che dovrebbe essere l’orticello sul quale impongono le loro vedute. E’ esercizio di pura demagogia pensare che tutta la prevenzione possa essere strutturata su un’eterna rincorsa alle patologie più frequenti mettendo a punto strumenti di diagnosi sempre più precisi e proponendo a tutta la popolazione continui controlli per bloccare le varie patologie sul nascere. Una prevenzione più efficace si attua certamente adottando stili di vita che possano far mantenere la salute al presunto paziente. Ma manca la struttura dei professionisti che possono indirizzare in tal senso. Non è una lotta di categoria affermare che l’insegnante di educazione fisica esiste solo come insegnante a scuola (e purtroppo è ancora una figura piuttosto marginale) ma fuori da quella non ha una sua veste istituzionale. La follia è pensare che un salto culturale che vada a considerare questa opzione possa essere imminente. Siamo indietro anni luce nel considerare questo concetto di prevenzione e quando scrivevo di operatori della prevenzione del terzo livello come di quei soggetti che lavorano per mettere in pratica le linee guida di indirizzo in tema di attività fisica per tutti probabilmente sarò passato per un marziano pazzo. Eppure la pubblicizzazione dell’attività motoria per tutta la popolazione viene vista come una cosa saggia. E’ il tentativo di mettere in pratica queste idee che viene visto come follia.
In effetti si tratta di “vedute” non di scienza. Io “vedo” un certo tipo di prevenzione e “vedo” abbastanza male perché vedo un qualcosa che ancora non esiste. La comunità scientifica vede un altro tipo di prevenzione (e ne sancisce tre livelli che con i miei proprio nulla hanno a che spartire e per quello è nato l’equivoco…) che è anche improprio chiamare prevenzione ma, insomma, chiamiamola come si vuole, va comunque fatta.
E dove sta la saggezza? La saggezza, udite udite, a mio parere sta nel comportamento di quel novantatreenne citato nell’articolo oggetto di critica che si ostina a confrontarsi con lo sport anche a 93 anni, che sta molto attento a quando attraversa la strada sulle strisce pedonali e che sa anche che sul campo sportivo potrebbe pure lasciarci le penne come del resto può lasciarcele uno splendido ventenne che non sa di avere una cardiopatia di quelle subdole che non scopri nemmeno con gli esami più sofisticati e che ti colpiscono a sorpresa senza alcun preavviso.
Lo sport, fatto con raziocinio e buon senso, fa certamente bene alla salute e, anche se non da la vita eterna il vero rischio è non praticarlo. Questa è una splendida realtà e se non è una realtà è la frottola che continuerò follemente a raccontare a tutti finché campo. Buona attività sportiva a tutti.