FILOSOFIA SPICCIOLA E SPORT

E’ mancato nei giorni scorsi un mio omonimo che aveva venduto qualche milioncino di libri ed ha avuto il merito di riuscire a scrivere di filosofia in modo comprensibile. A volte era quasi un po’ dissacrante per quanto atterrava i discorsi dei grandi filosofi alla portata del volgo ma è riuscito comunque a far riflettere su alcune questioni filosofiche anche gente che della filosofia non gliene fregava nulla. Per attenuare l’invidia verso questa sua grande capacità mi ripetevo che comunque io ero riuscito a correre gli 800 metri in un tempo di ben 13″ inferiore al suo ma penso che con la sua filosofia mi avrebbe detto che quello non contava nulla perché nello sport non è importante eccellere bensì partecipare, divertirsi e riuscire ad utilizzare lo sport come strumento di salute.

In effetti anch’io penso che nello sport la grande differenza sia fra partecipare e non partecipare poi la differenza fra ottenere ottimi risultati e non ottenerli è comunque importante ma non così decisiva come quelle fra partecipare o meno. Io penso che comunque nello sport sia importante divertirsi e questo è un ottimo ingrediente per avere una buona salute nel senso che la lotta allo stress è uno dei punti cardine per la ricerca della salute nel cittadino del terzo millennio. In tal senso la ricerca di risultati agonistici di ottimo valore può essere quasi pericolosa in quanto potenziale fonte di stress e anche con riguardo alla mia carriera agonistica, durata un po’ più di un decennio, ho da osservare come alcuni momenti della stessa non siano stati del tutto esenti da stress. Per assurdo in certi momenti gusto la corsa di più adesso che vado la metà di quando correvo davvero e ciò è abbastanza strano perché il mio rendimento sportivo attuale è piuttosto patetico. E’ forse proprio ripensando agli anni del massimo rendimento (più o meno fra i 20 ed i 24 anni) che mi rendo conto che allora avrei potuto apprezzare la corsa molto di più di quanto l’abbia apprezzata effettivamente. Diciamo che ero un po’ più preoccupato al valore dei risultati agonistici che non a sentire come stavo correndo e ancora adesso, un tot. di decenni dopo, quando tento di ricordare quelle sensazioni come per incanto si affacciano anche quelle legate alla ricerca di un certo risultato e così se mi viene in mente qualche schema motorio automaticamente mi si visualizza in testa una lista di concorrenti in grado di suonarmi in campo nazionale. Magari quella lista è pure lunga (disgraziatamente anche l’anno che sono andato più forte in Italia ce n’erano ben 18 che andavano più forte di me…) e così mi sorprende come la memoria sia quasi più efficiente nel ricordare la lista dei concorrenti che non le sensazioni di corsa.

Quasi in modo filosofico sostengo che lo sport migliore sia quello che ti impegna molto, creandoti problemi nel lavoro e/o nello studio ma senza farti diventare un professionista. Pare una visione un po’ assurda questa perché se dedichi molto tempo allo sport l’ambizione di diventarne un professionista dovrebbe essere sacrosanta e quella che ti risolve pure un po’ di problemi esistenziali. Essenzialmente ti risolve i problemi di ordine economico ma poi altri problemi non te li risolve. Il professionista in effetti per un certo numero di anni può anche non pensare al lavoro perché il suo lavoro è proprio fare sport e può anche, forse, non pensare al danaro. Dico forse perché in realtà lo sportivo professionista al danaro ci pensa sempre in primo luogo perché sa che non farà lo sportivo tutta la vita ed in secondo luogo perché sa che deve sparare le sue cartucce anche facendo i conti da un punto di vista pure dell’ottimizzazione economica della sua carriera sportiva, non a caso soprattutto quando è un atleta di alto livello quasi sempre si affida ad un manager che ha il difficile compito di destreggiarsi nei discorsi economici legati all’aspetto agonistico. Ma allora se diventare professionisti può addirittura guastare il gusto per lo sport perché crea problemi che il non professionista non ha perché non accontentarsi di una pratica sportiva molto soft che non ti crea alcun problema nemmeno di interferenze con i tuoi studi o il tuo lavoro?

E qui la risposta non è per nulla semplice e provo a semplificarla ma non ho di certo le doti espositive del mio omonimo che sono convinto che un discorso del genere l’avrebbe capito e forse addirittura avallato nel nostro contesto sportivo.

Per fare sport davvero bisogna allenarsi molto altrimenti materialmente non si giunge a quel livello prestativo che, professionisti o no, ci può far dire che facciamo sport davvero. Devo dare i numeri per farmi capire. Parlando di salto in alto non posso dire che è uno sportivo vero uno che fa un metro e ottanta di salto in alto perché quella misura lì ci sono tanti soggetti che vanno al campo e se la fanno pure senza allenarsi. Parlando di salto in alto un atleta vero per conto mio è uno che a vent’anni ti va dai due metri in su. Qualcuno mi obietterà che c’è pure qualcuno in  grado di fare 2 metri nell’alto a 20 anni praticamente senza allenarsi e quello per conto mio più che uno sportivo “finto” (perché in realtà non si allena) è semplicemente uno stupido perché se fai due metri a vent’anni, accidenti cosa te ne frega se diventi un professionista o meno ma 2.20 prova a farli perché allenandoti tutti i giorni a 2.20 ci arrivi. Allora ribadisco il concetto: buona misura e allenandosi tanto. Al limite a mio parere è più sportivo vero quello che nonostante si alleni tutti i gironi non si schioda da un record di 1.80 (che non è una buona misura perché te la fanno anche ragazzini di sedici anni che si allenano due o tre volte la settimana…) perché non è dotato rispetto al fenomeno che salta due metri ma non  si allena mai.

Perché è importante allenarsi tanto (e dico “tanto” non “tantissimo”): perché è solo in quel modo che puoi apprezzare davvero ciò che fai anche se non ne vedrai il becco di un quattrino ed è solo in quel modo che puoi fuggire davvero dalle insidie dello stress. Se ti alleni poco sei vittima come tutti gli altri della società della competizione, finirai per lavorare dodici ore al giorno e non avrai più tempo per allenarti neanche quel poco. Allora l’atleta vero deve essere ricco di famiglia da potersi permettere il lusso di snobbare le esigenze del mercato del lavoro? Non dico questo ma ci vado vicino. Deve avere la sfrontatezza tale di poter ragionare pensando che si vive una volta sola e che se 2.20 non lo fa a 25-30 anni a 50 non lo farà di sicuro.  Trasferire la vera competizione dal luogo di lavoro al campo sportivo è il vero compito dello sport, dello sport coinvolgente, quello che pure senza farti impazzire ti può far rinunciare ai lauti guadagni di chi si tuffa “full immersion” nel mondo del lavoro. Dire questo in una società che cerca sempre di più il venticinquenne che si ammazza di lavoro può sembrare utopia ma attenzione che il rischio del venticinquenne che si ammazza di lavoro è che poi può non cavarsela più fin che campa e finirà per lavorare dodici ore al giorno tutta la vita mentre lo sport agonistico di sicuro verso i trent’anni inizia a farti respirare un po’ dandoti la possibilità di concentrarti su attività che in quel momento dell’esistenza saranno giustamente diventate più importanti.

Insomma la follia suprema non è quella di uno sport autentico per tentare di diventare professionisti dello sport quanto di uno sport vero per vivere intensamente quella gioventù che un mondo del lavoro che non guarda in faccia nessuno rischia di rubare ai giovani. Per fare sport ad un buon livello c’è tempo più o meno fino ai 30-35 anni e non è il caso di iniziare prima dei 18-19 (anche se molti giovani italiani iniziano ben prima per la fobia di tentare di diventare professionisti), per lavorare con il paraocchi c’è tempo una vita e se ne hai voglia non ti cacciano via nemmeno a 70 anni. Ogni frutto ha la sua stagione.