Se l’effetto placebo fosse studiato a fondo nella somministrazione di tutti i farmaci probabilmente l’industria farmaceutica ne rimedierebbe una mazzata insostenibile.
Non solo verrebbe fuori che una gran parte dei benefici provocati dal farmaco sono da attribuire all’effetto placebo e pertanto non al principio attivo quanto a quell’insieme di reazioni scatenate a livello conscio ed a livello inconscio ma, soprattutto, che la totalità degli effetti collaterali patibili con la somministrazione sarebbero cancellati perché, purtroppo gli effetti collaterali sono strettamente correlati con il principio attivo e non con l’idea della sua somministrazione.
Non possiamo attenderci dunque grandi sponsorizzazioni, da parte delle case farmaceutiche, sulle ricerche sull’effetto placebo perché i risultati di questi studi non darebbero risposte utili alle industrie stesse.
L’ambito dove invece siamo liberi di studiare compiutamente l’effetto placebo, è proprio quello sportivo dove questo effetto è concreto sul rendimento sportivo e potrebbe essere documentabile.
Un allenatore di provincia, a fine anni ’70 (tale Egidio Perantoni detto “El dotor” della mitica Atletica Piovezzano) mi diceva che l’importante non era il tipo di preparazione che si andava ad affrontare quanto la convinzione sulla validità della stessa. Praticamente lui sosteneva che anche una buona preparazione se trovava un certo tipo di resistenze per chissà quale motivo nell’atleta poteva essere poco utile e non dare risultati significativi, mentre al contrario una preparazione anche piuttosto grossolana e non molto calibrata se ottimamente interiorizzata da parte dell’atleta poteva dare risultati molto significativi. In sintesi diceva: “Se vuoi che l’allenamento dia i suoi frutti devi essere convinto di quello che stai facendo anche se non è la cosa migliore”. Mi sono prontamente allineato su questa teoria del “dotor” e anche adesso, oltre 40 anni dopo, sono convinto che questo atteggiamento che si può chiaramente definire “effetto placebo” abbia un suo peso determinante nel processo di perfezionamento sportivo.
Allora, visto che con questo tipo di studi sull’effetto placebo non andiamo a danneggiare proprio nessuno (salvo che per assurdo non induciamo un minor ricorso alle sostanze dopanti ed allora danneggiamo ancora una volta le case farmaceutiche…), sarebbe opportuno investirci su tempo, se non danaro, per indagare sulle dinamiche degli adattamenti stimolati da questi allenamenti con contenuto emotivo collaudato e vincente.
Mi viene da citare un altro allenatore, questo in piena attività, che è un allenatore della disciplina del salto con l’asta e che, ricordando quanto già affermato da un suo collega noto nel mondo dell’asta, dice: “il salto con l’asta è per l’80% una questione mentale e per il restante 20% è una questione di testa…”.
Dunque ci sono dei meccanismi mentali che in modo imperscrutabile condizionano decisamente l’apprendimento sportivo. Discutere dell’effetto placebo non è tentare di ingannare la mente, ma, al contrario attribuirle una grande importanza e ammettere come la centrale di smistamento delle informazioni abbia sede indubbiamente nella nostra testa prima ancora che nei nostri muscoli.
In tal senso la moda di ricorrere a frequenti esercitazioni per lo sviluppo della forza non è molto giustificata perché l’unica reale utilità di tradurre questa forza sulla prestazione sportiva è data da un processo di affinamento mentale che non è per niente scontato e di sicuro accadimento.
E’ auspicabile una presa di coscienza a livello di preparatori sportivi su tutto ciò che ha a che fare con l’effetto placebo e la capacità di somministrare le sedute di allenamento considerando l’importanza di questo anche laddove la stimolazione delle doti condizionali può apparire ad un primo esame più urgente.
Per contagio si potrebbe poi passare ad un nuovo entusiasmo sull’argomento anche da parte della classe medica e, allora, tanto per far capire la portata dell’argomento, potremmo anche risparmiare qualche miliardino riuscendo a ridurre il consumo di farmaci. Questo contagio non ha certamente la benedizione delle case farmaceutiche che potrebbero vedere in questo indiscusso progresso culturale un’autentica minaccia volta a provocare una contrazione del consumo di farmaci e allora, tanto per cambiare, si tratta sempre di porsi il grande quesito se sia più importante la salute del sistema economico o quella del nostro io.
La risposta al privilegio della prima non è molto razionale ma purtroppo è quella che informa tutto attualmente. Se la testa è davvero importante, come diceva quell’allenatore di salto con l’asta, allora è possibile che ci spostiamo da quest’ottica ed il livello di salute medio dalla popolazione, più ancora che il rendimento sportivo, potrà migliorare in modo inequivocabile.
E’ un auspicio di tutti, sportivi e non.