Domanda sul M.A.E. (Metodo di Amplificazione dell’Errore)

Ieri mi sono trovato con i miei colleghi e da parte del mio “compagno di banco” (che non era il mio compagno di banco all’Isef ma così io chiamo quelli che ho a fianco nelle cene o pranzi quando ci troviamo ancora adesso) mi è arrivata una domanda anche piuttosto apprezzabile se non fosse che mi getta nella disperazione. Molto semplicemente mi ha detto “Tu che curi un sito che si occupa di queste cose potresti anche farti carico di portare avanti l’informazione sul M.A.E. che era il fiore all’occhiello dell’Isef di quegli anni…”.

Ebbene io ogni tanto ci provo ed in effetti qualcosetta sul M.A.E. ho già scritta (basta digitare la sigla appunto e qualcosa viene fuori) però il solo fatto che nel titolo dell’articolo sia costretto ad aggiungere per esteso il nome del metodo perché i più non sanno nemmeno cosa voglia dire la sigla già ci fa capire che rispetto ai tempi dell’Isef non siamo andati avanti quasi niente se non proprio siamo tornati indietro.

Allora, per sommi capi e con un semplicismo atterrante, forse inaccettabile da parte di chi l’ha portato avanti in quegli anni, il compianto prof. Bragagnolo allora direttore dell’Isef di Verona, potrei dire che il M.A.E. è quel metodo di preparazione sportiva che ci aiuta a far chiarezza sulle problematiche dell’atto motorio partendo da una esagerazione dei presunti errori di un atleta rispetto ad un ipotetico schema motorio ideale di riferimento.

Ho già scritto anche come, proprio in seguito alle acquisizioni maturate nell’applicazione del M.A.E., ci si renda conto che, a volte, ipotetici modelli di riferimento accettati come validi dalla dottrina corrente si rivelano modelli tutt’altro che sacrosanti ed invece assolutamente discutibili. Pertanto il primo problema nell’applicazione del M.A.E. è proprio l’individuazione di un ipotetico errore e ci si può anche accorgere che il vero errore non è quello che si credeva tale bensì un altro aspetto del movimento che non si aveva mai avuto il coraggio di mettere in discussione.

La domanda del mio amico in realtà è più insidiosa perché mi chiede se, visto che credo nel metodo e non ho esitato a metterci la faccia per portarlo avanti e propagandarlo, non sia convinto che questo oblio che permea l’informazione sul metodo in realtà non sia una cosa da abbattere grazie anche ad un lavoro sinergico fra colleghi che non devono assolutamente aver paura di insistere con cose che la massa ha dimenticato.

Non so quali possano essere le vie per dare all’applicazione del metodo lo spazio che giustamente merita. Francamente non me lo vedo nella scuola attuale bloccata su cose decisamente più antiche. Auspico che venga come minimo ripreso negli Istituti di Scienze Motorie anche se temo che questo impulso non penso che possa partire in discipline condotte dai medici perché certamente non è partito da loro l’approccio alla disciplina.

In effetti penso che un gruppo di insegnanti di educazione fisica convinti dell’importanza dell’applicazione del metodo si potrebbe anche trovare ma questi insegnanti non avrebbero certamente l’appoggio di molti colleghi per le difficoltà applicative del metodo stesso e per le implicazioni che l’applicazione di questo comporta.

Visto che ho citato i medici accenno ad una cosa per tutte per far capire la complessità della questione. La medicina dello sport in questi anni ha preso sempre più piede e la figura del medico sportivo è sempre più importante nei sodalizi sportivi. Addirittura alcuni club hanno veri e propri staff medici più che un unico responsabile della parte medica e certi protocolli di preparazione (io inorridisco a sentirli chiamare così e già questo vi spiega tutto…) non vengono redatti se non dietro la supervisione di un medico o dell’intero staff medico. Ecco, il M.A.E. è distante anni luce da questo modo di operare perché la premessa nel M.A.E. è che l’insegnante di educazione fisica fa l’insegnante di educazione fisica ed il medico fa il medico. Pertanto l’insegnante di educazione fisica si cura di rompere le scatole meno possibile per questioni che riguardano il suo atleta ed il medico sociale non si interessa dell’atleta se non per andarlo a vedere nelle competizioni o per intervenire malauguratamente e si spera meno possibile quando qualcosa non funziona. Niente di regolarmente previsto e programmato, il medico può anche non sapere nulla della preparazione dell’allievo perché non è affar suo e se tutto funziona deve continuare a non essere affare suo.

Io posso capire che un medico possa intervenire anche a porre determinati quesiti all’allenatore se l’atleta finisce in infermeria troppo spesso e per cose che hanno a che fare con la preparazione ma in caso contrario penso (e non so se in questo pensiero sono all’antica o terribilmente all’avanguardia…) che il medico non ci dovrebbe proprio mettere il becco sulla preparazione del ragazzo.

Da questo punto di vista dunque il M.A.E. è in controtendenza e potrebbe anche creare problemi a club che hanno investito sulla parte medica e partono dal presupposto che l’approccio medico è fondamentale per “programmare” la preparazione.

Anche su quella parolina magica “programmazione” ci scontriamo perché con il M.A.E. non si programma proprio nulla, non c’è niente di standardizzato e le risposte non le abbiamo se non dopo che siamo andati a provare con l’atleta. Per alcuni il M.A.E. è empirico, non è scientifico ed è comunque proprio vero che è semplicemente disastroso per chi ha l’ambizione di programmare la preparazione e farcela stare in un computer.

Ci sarebbe da scriverne decisamente molto ed in questo capisco l’ammonimento e la richiesta del mio amico.

Però, per giustificare il mio atteggiamento un po’ sparagnino quasi timido e fin troppo riservato, cito una frase del professor Bragagnolo che diceva “Non è importante che ti capiscano approssimativamente in tanti ma è importante che ti capiscano bene in pochi, almeno quelli con i quali lavori direttamente…” e così mi accadde di fregarmene un po’ anche se talvolta non vengo capito nei miei strani metodi di allenamento e mi accontento di farmi capire dai miei atleti. Chiaro che questa dolce malinconia non deve trasformarsi in pigrizia e chiusura intellettuale perché allora dico che ha decisamente ragione il mio “compagno di banco” di ieri e a costo di far brutte figure e andare in conflitto con chi la pensa decisamente diversamente è ora di far capire che la metodologia dell’allenamento sportivo non si studia sui testi di medicina ma si mette a punto sui campi sportivi e da lì, eventualmente, va confrontata con evidenze di carattere scientifico. L’atleta in sintesi, anche nel 2024, è un soggetto che si studia sul campo e non in ambulatorio. Poi ci può essere chi la pensa diversamente ma chi la pensa diversamente se legge qui sopra rischia solo di arrabbiarsi.