Una forte motivazione e una buona dose di umiltà. E poi c’è l’aspetto tecnico certamente ma io sono convinto che con una motivazione valida ed un atteggiamento umile si riescono a superare anche i gap tecnici che molti tecnici superpreparati riescono a far patire agli atleti soprattutto di buon livello. Diciamo che questa tegola dei tecnici superpreparati è un problema che viene patito soprattutto dagli atleti di alto livello ed è come una livella che da delle possibilità in più agli esclusi, a quelli che non vengono ritenuti meritevoli di particolari attenzioni in quanto non considerati potenziali futuri campioni. Pertanto direi che per chiudere il cocktail degli elementi utili per formare il buon atleta occorre motivazione, umiltà e poi la fortuna di maturare in tempi lunghi e possibilmente di nascosto così da non andare sotto alla supervisione devastante dei tecnici che sanno tutto loro e riescono a provocare l’abbandono della pratica agonistica da parte di un buon numero di potenziali buoni atleti.
In realtà la mannaia che provoca una fortissima selezione di potenziali buoni atleti fin già dall’età di 15-16 anni e poi, in modo ancora più decisivo, attorno ai 18-20 anni è di tipo sociale e non possiamo incolpare di quel flagello solo gli allenatori sapientoni e privi di umiltà.
Per quello è importante una forte motivazione, perché siamo in una società che stende tappeti d’oro al potenziale campione con mille incentivi di carattere economico e non solo (a volte l’attenzione ed una buona parola sono anche più incentivanti dell’incentivo economico) ma massacra in modo netto ed inequivocabile il buon atleta che magari non è già un buon atleta e pur sapendo di non essere un potenziale campione vorrebbe giocare tutte le sue carte per diventare un buon atleta all’età di 25-28 anni quando il suo fisico è affettivamente in grado di esprimere il top e non a 18-20 anni se non prima come quasi sempre accade perché la necessità di diventare un campione è propagandata a più riprese. Non è prevista e tanto meno stimolata nella nostra società la figura del buon atleta che, pur non essendo un campione, si allena tutti i santi giorni dedicando una fetta importante del suo tempo libero allo sport come è giusto che sia per tutti i giovani sani e pure non sani.
Così si passa dall’atleta che si allena due volte al giorno, che è a tutti gli effetti un professionista anche se magari pratica uno sport che viene definito dilettantistico, all’atleta che pur resistendo nella pratica agonistica si limita a frequentare il campo un paio di volte la settimana con lo stesso stile che più si confà ad un amatore che ha bisogno di buttare giù la pancia. I primi molto spesso vanno incontro a inconvenienti da sovraccarico e l’esagerazione dei carichi di allenamento ai quali sono sottoposti è provata dal loro consumo di farmaci che è mediamente superiore a quello del resto della popolazione sana, i secondi praticano un’attività di tipo quasi amatoriale che non riesce a coinvolgere più di tanto e quello che non era stato un buon atleta a 18 anni certamente non lo potrà diventare a 25 con due allenamenti alla settimana.
L’attività quotidiana, assidua ma non esagerata, è un lusso per pochi così come la capacità di modulare gli obiettivi senza fretta e senza necessità impellenti.
La fretta e la necessità di emergere a tutti i costi fanno anche capire perché sia poco di moda l’attività sportiva quotidiana. Se l’imperativo è emergere, quasi di sicuro un buon numero di allenamenti sono abbastanza stressanti e allora se questi sono nel numero di due, massimo tre alla settimana possono anche essere sopportabili ma se cominciano ad essere anche 4 o 5 alla settimana o, peggio ancora, tutti i giorni allora l’allenamento diventa un incubo più che un piacevole momento nella giornata.
Pertanto, esagerando nella pignoleria, andrei a riaffermare che gli ingredienti per tentare di diventare un buon atleta siano la motivazione, l’umiltà, la fortuna di non trovare santoni nel cammino sportivo che creano problemi all’atleta invece di risolverli e anche una buona capacità di riflettere e riuscire a trovare gli spazi necessari nella giornata per riuscire a fare cose che non sono di moda e non sono assolutamente incentivate nella nostra società.
In una parola il buon atleta non è di moda. Un atleta che a 25 anni salta 2 metri nell’alto o corre gli 800 metri in 1’55” non è di moda perché non si capisce che cavolo è, visto che non è un campione ma non è nemmeno un tapascione al quale devi dire cosa fare per buttare giù la pancia. Di questi atleti potremmo averne decine di migliaia se non pressassimo i ragazzi prima di questa età con esigenze di risultato a tutti i costi.
In questo senso va interpretata la necessità di una buona umiltà che dovrebbe essere anche e soprattutto dell’allenatore oltre che dell’allievo. Se l’obiettivo è saltare in alto 2 metri 40 oppure correre gli 800 in 1’42” è facile capire anche a 18 anni che non si è sulla strada giusta ma se l’obiettivo è superare i divertenti due metri oppure correre gli 800 sotto gli altrettanto divertenti quanto impegnativi due minuti sfido qualsiasi tecnico a venirmi a dire a 18 anni che tale cosa è impossibile per un ragazzo che si applica con passione ed ha un minimo di predisposizione a quella disciplina.
Gli obiettivi possono incentivare oppure bastonare a seconda dei casi. Per chi ha già corso gli 800 in 2’05” a 18 anni l’idea di finire la carriera con un tempo sotto i due minuti non è assolutamente un miraggio e deve essere nella corde di quel ragazzo che è appassionato a quella specialità. Ma se l’obiettivo è 1’42” e quel ragazzo a 18 anni non ha già corso gli 800 in meno di due minuti possiamo proprio affermare che quasi di sicuro sta perdendo tempo perché a quel tempo non ci arriverà mai se è già da un po’ che corre, ha quasi del tutto maturato lo sviluppo fisico e, almeno un po’, ha già premuto sull’acceleratore per capire cosa può fare.
La capacità di riflettere serve a capire quale sia la reale perdita di tempo per un ragazzo che, pur non essendo un campione, insiste a praticare sport con un certo impegno. E’ chiaro che in una società malata di competitività la risposta, pur malata, può anche non essere irrazionale e così ci sarà anche il buon altista che magari ha già superato due metri e mostra tutti i numeri per poter arrivare anche a 2.05, che ad appena vent’anni sentenzia: “Mi spiace ma qui se non lavoro dieci ore al giorno non riesco a reggere i ritmi degli altri, mi tocca abbandonare la pratica sportiva”. Alla faccia della disoccupazione e del fatto che se lavorassimo tutti e fossimo pagati in modo equo non sarebbe necessario lavorare più di sei o sette ore al giorno.