Si stanno concludendo a Pechino i Campionati Mondiali di Atletica Leggera e l’Italia, salvo sorprese molto poco probabili dell’ultima ora, se ne torna a casa con un bilancio abbastanza sconfortante. Il commentatore italiano fa un paio di osservazioni sulla prima delle quali mi trova molto d’accordo sulla seconda un po’ meno, almeno nei termini con i quali è stata esposta.
Prima osservazione: l’atletica ha perso un po’ quella semplicità del rapporto atleta-tecnico attorno al quale si costruiva un rapporto educativo e, secondariamente, pure il futuro campione. Adesso ci sono una infinità di figure, tutte rigorosamente definite con termine anglosassone, che fanno solo caos e vanno a snaturare il normale processo di crescita del giovane atleta. Parlando in italiano, lingua nella quale noi italiani tendiamo a fraintenderci meno anche se proveniamo da centinaia di dialetti l’uno molto diverso dall’altro, il medico, il fisioterapista, lo psicologo, il procuratore sportivo e tutta una serie di persone che circondano il giovane di un’infinità di attenzioni.
Mi spingo più in là e aggiungo che un atleta maturo, un giovane responsabile, è addirittura un atleta che lascia spazio fra se ed il tecnico anche per altri atleti meno importanti ed il processo educativo si evolve proprio nel concretizzare interesse da parte del tecnico anche per atleti che non hanno certamente lo spessore tecnico dell’atleta più performante. Faccio l’esempio di un atleta che, purtroppo per noi, non è italiano ma bosniaco, mentre il tecnico è assolutamente italiano anche se ha già seguito e portato al successo un gran numero di atleti stranieri: l’atleta è l’emergente Amel Tuka, rivelazione mondiale negli ottocento metri quest’anno, che a Pechino ha conquistato uno splendido bronzo dopo aver illuso di poter fare addirittura meglio superando i turni eliminatori con la maestria di un campione di grande esperienza, il tecnico è Gianni Ghidini che ha sempre seguito un’infinità di atleti oltre che anche un gran numero di campioni. Un atleta come Tuka non sottrae assolutamente spazio agli altri atleti ed invece porta nuovo entusiasmo e nuova vivacità in un ambiente che ha bisogno di confrontarsi anche con l’atletica dei numeri uno per potersi evolvere e per poter entusiasmare. Dentro al rapporto fra Tuka e Ghidini c’è un intero movimento di atleti che possono beneficiare dell’entusiasmo dell’atleta e dell’esperienza del tecnico, è un rapporto aperto che porta benefici a tutto il movimento sportivo. E’ anche un modo per stemperare la tensione dell’atleta di alto livello che altrimenti rischierebbe di sentire un peso enorme sulle sue spalle. C’è lui, con i suoi risultati di alto livello e ci sono gli altri ragazzi che come lui sono lì per coltivare dei sogni e per tentare di migliorare a loro volta, ognuno vive la sua storia personale, quella dell’atleta di spicco ha chiaramente più attenzione, quella degli altri atleti è comunque vissuta con grande intensità.
Questa è la faccia buona dell’atletica mentre quella snaturata, a mio parere, è quella nella quale si fa ricorso sistematicamente e pedissequamente in modo ossessionante ed addirittura imbarazzante al medico ed allo psicologo che diventano ombre inquietanti attorno all’atleta. Perché un atleta che dovrebbe essere il massimo dell’equilibrio psicofisico dovrebbe avere costantemente bisogno dello psicologo e del medico come se fosse un malato? Posso capire che ad un certo punto l’atleta possa avere addirittura bisogno del manager, perché se diventa talmente forte che tutti lo vogliono, qualcuno dovrà pure occuparsi di studiare dove è più opportuno che vada a gareggiare, ma il medico e lo psicologo cosa c’entrano?
Ripeto, su questo punto sono perfettamente d’accordo con la critica del commentatore italiano e sono appunto a testimoniare, con la realtà di Bussolengo (che è il paese dove si allena Tuka con il gruppo di Ghidini), come si possa ancora sperare in un atletica semplice dove c’è un tecnico (o certamente più tecnici ma… non sullo stesso atleta) con più atleti e dove il medico e lo psicologo hanno libero accesso al campo in qualità di tifosi ma non di diretti interessati al processo di evoluzione dell’atleta. Certamente se l’atleta si infortuna il medico diventa molto importante e la sua presenza tempestiva è molto gradita, quanto allo psicologo ci auguriamo che un ragazzo equilibrato e contento del suo sport non debba mai averne bisogno.
Poi c’è il secondo aspetto citato proprio oggi, nella penultima giornata dei mondiali, dal commentatore che in realtà è l’aiuto tecnico del commentatore e che è un tecnico stagionato del quale ho profonda stima proveniente dal “mio” Veneto che però, a mio parere, fallisce la possibilità di lanciare un messaggio preciso ed inequivocabile. Dice che il problema dell’atletica italiana più che nella base dei giovani che ottengono risultati di ottimo livello nelle manifestazioni internazionali è nella base della base, cioè proprio nel numero dei praticanti e nella qualificazione ai primi livelli di questa base di praticanti. Tutto sommato a fronte dei risultati di vertice del movimento giovanile potremmo avere dei risultati della squadra assoluta più soddisfacenti. Fin qui sono perfettamente d’accordo, abbiamo dei giovani di ottimo livello, manca la “base” di questi giovani e allora mi attendo che dica una sola ed una sola cosa perché ormai è arrivato al dunque.
E sul dunque lui dice che c’entra la società, il modello culturale, i genitori, la famiglia e altre cose e poi… la scuola, quando io mi sarei atteso che dicesse: la scuola, la scuola ed ancora la scuola.
Non si fa attività motoria a sufficienza a scuola, non si fa sport, l’atletica è la base di tutti gli sport, la scuola italiana deve preoccuparsi di diffondere l’atletica come accade nei paesi veramente evoluti a livello sportivo.
Non sto contraddicendo quanto ha detto il commentatore e sono perfettamente d’accordo che vi sia una molteplicità di cause a determinare la fragilità di un modello culturale che considera lo sport in modo molto superficiale ma, accidenti, per me è assolutamente innegabile come la responsabilità della scuola svetti su quella di tutti gli altri possibili motori dell’auspicabile cambiamento.
Non vorrei essere disfattista ma se non vincere nemmeno una medaglia ai mondiali è buona scusa per rivedere l’assetto organizzativo della distribuzione di attività motoria ai giovani italiani ben venga questo flop degli atleti di vertice. Il vero problema non è quello degli atleti di vertice che si sono impegnati tutti secondo le loro possibilità ed avere un Tuka italiano, magari che viene fuori proprio da Bussolengo, non è assolutamente impossibile. Il problema è che quasi di sicuro, il simpatico Tuka prima di trovare a Bussolengo il tecnico e l’ambiente che l’hanno aiutato a crescere come atleta avrà frequentato una scuola dove i valori sportivi avevano una grande importanza. Si può dire altrettanto dei bambini e dei ragazzini che frequentano le nostre scuole? Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo sguinzagliare Gianni Ghidini in giro per tutte le scuole italiane? O possiamo accontentarci che insegnanti anche molto meno esperti del Gianni possano essere messi in grado di fare il loro lavoro? Faccio sempre l’esempio del calcio: l’Italia del calcio ai Mondiali può pure combinare quello che vuole, al settore giovanile del calcio non si può imputare proprio nulla perchè’ se un bambino vuole giocare a calcio in Italia può farlo come vuole. Si può dire altrettanto per l’atletica leggera? Io penso che si possa augurare a tutti i ragazzi italiani di incontrare un tecnico di atletica leggera valido come Gianni Ghidini ma penso che sia forse più facile augurare loro di entrare in una scuola che finalmente consideri davvero e non solo marginalmente lo sport come importante elemento educativo per una crescita armoniosa dei ragazzi.