Ho sempre odiato il campionismo, quella mania che hanno i giornalisti di sport di voler raccontare i campioni dello sport ancora più grandi di quello che sono. I campioni sono già grandi perché sono campioni, non c’è bisogno di raccontarli ancora più grandi, semmai, se si vuole reggere la scena, bisogna tentare di “tirare un po’ su” quelli che non sono campioni che, se sono troppo inferiori ai campioni, non riescono a produrre uno spettacolo veramente emozionante. La vera fatica non è dei campioni ma delle comparse che faticano più di questi a tenere la scena per compensi che talvolta non sono nemmeno la decima parte di quelli dei primattori.
Faccio un’eccezione per Cassius Clay.
Cassius Clay (chiamatelo come volete per me il suo gesto più significativo non è stato certamente il cambio di nome) ha dimostrato al mondo che, a quel livello, lo sport non è solo sport. Cassius Clay è stato il simbolo di un’epoca che probabilmente non potrà più tornare. Anche se nascesse un Cassius Clay ancora più forte di Cassius Clay adesso non potrebbe più comportarsi in quel modo, gli sponsor non glielo consentirebbero. Il mondo dello sport è comandato dagli sponsor che ne scrivono il copione. Chi recita il copione può cambiare di volta in volta, può essercene sempre uno più bravo di un altro ed in questo senso lo sport è molto democratico, chiunque può andare al vertice anche se fino a poco tempo prima non era nessuno. Però il campione che “parla”, il Cassius Clay che va in conferenza stampa e non si sa assolutamente cosa dice, non esiste più. Non è tollerato dagli sponsor. E per cui sport e politica sono due cose diverse quando purtroppo bisogna ammettere che scindere lo sport dalla politica è stata una decisione politica molto discutibile. Praticamente la politica ha il primato sullo sport, non si sa perché sia così, chi ha deciso che sia così. Non si discute nemmeno di doping (gli atleti trovati positivi che provano a trattare davvero l’argomento prendono sempre pene più severe rispetto a quelli che minimizzano e pensano solo a sé stessi) che è un argomento di sport anche se alla fine tocca pure la politica, figuriamoci se si può trattare di politica vera e propria partendo dallo sport. Nel caso dei vari boicottaggi alle Olimpiadi si sono sempre operate scelte politiche di gruppo senza mai lasciare gli atleti liberi di decidere individualmente usando la loro testa. Praticamente l’atleta deve fare il gladiatore e basta, non è libero di fare scelte che hanno un certo peso politico. Lo fece Cassius Clay, quando, campione già affermato, decise di non andare in guerra, perdendo un sacco di soldi che erano lì ad aspettarlo in quanto campione affermato e pure cuccandosi la galera. Fu una scelta politica scomoda, molto scomoda per il suo paese che invece di trovare nel suo cittadino un motivo di orgoglio, di vanto nazionale, trovò in lui un motivo di imbarazzo, un caso diplomatico. Chi è, al giorno d’oggi, l’atleta che ci sta a contestare la politica del suo Paese?
Visto che io scrivo troppo di politica voglio soffermarmi a ricordare Cassius Clay per un’ altra cosa che non è che la minima parte dell’aspetto sportivo della sua carriera.
Ricoinvolgo il giornalismo ed, una volta tanto, parlandone bene. C’è un film su Cassius Clay che più che un film è un documentario un po’ romanzato. E’, se vogliamo, un’opera giornalistica perché parte dal racconto di un incontro leggendario: quello del 1974 contro Foreman. Il film si intitola “Quando eravamo re” ed è un racconto di sport che per conto mio è ai vertici della cinematografia e può stare benissimo vicino a colossi tipo “Fuga per la vittoria” (“Fuga per la vittoria” è il trionfo dello sport sulla politica: questi qui che, pur di giocarsi il secondo tempo della partita di calcio, stanno lì a rischiare di far fallire tutto il complotto extracalcistico che avevano programmato nei dettagli) e “Momenti di gloria”. In “Quando eravamo re” si narra essenzialmente dell’incontro contro Foreman, ma ci sono dei passaggi sublimi che aprono ad una visione magica dello sport che difficilmente ho visto spiegata così bene in altri film e/o documentari. Cassius Clay (nel ’74 è già Muhammad Alì anche se io continuo a chiamarlo Cassius Clay) fa lo spaccone come ha sempre fatto e non mette mai in dubbio neanche per un solo istante la sua vittoria. Recita il suo personaggio. La realtà però è diversa, questa volta rischia di prenderne davvero tante perché Foreman, almeno sulla carta, gli è decisamente superiore. Questo Cassius Clay lo sa ed è per questo che è già stato un mezzo eroe a preparare l’incontro, sa benissimo che può finire davvero male. Non ha bisogno di soldi, è già ricco. Viene quasi da pensare che lo faccia per i suoi ideali, per quell’Africa che continua a sostenerlo e lo vede come suo messaggero. Dopo una lunga tiritera di contestualizzazione del Muhammad Alì attore che fa finta di non sapere che è sfavorito e che continua a fare lo spaccone c’è il momento clou del film. Pochi istanti prima dell’incontro, nello spogliatoio emerge la Realtà. Cassius Clay-Muhammad Alì, e di nomi potrebbe averne anche centomila in questo frangente che non cambia nulla, è solo con le sue paure. La paura è talmente grande che ha addirittura paura di morire, di venire ammazzato sul ring, non ha paura di rimediarci una gran brutta figuraccia, ha paura di lasciarci le penne sul ring. Questa è la Realtà, non la parte del campione irriverente ed invincibile che tutti hanno sostenuto ma tutti sanno essere finta perché gli scommettitori sono quelli che danno la misura delle tue possibilità e non i proclami da conferenza stampa.
Però il campione che ha paura è un grande campione. E questo è un grande campione perché è lì ad immaginare che su quel ring potrebbe essere addirittura annientato. E’ lì che crea i presupposti per il suo grande trionfo, sul quale, probabilmente, non era disposto a scommettere il becco di un quattrino nemmeno lui. Sa che l’impresa è quasi impossibile ma ci prova lo stesso.
L’incontro è narrato con una maestria ineguagliabile ed il momento di passaggio dalla presunta catastrofe al possibile miracolo è il top della narrazione in fatto di sport. Viene definito come magia e di magia si tratta perché non c’è altro modo di definirla. La magia dello sport, che puoi stare lì a spiegarlo scientificamente fin che vuoi ma c’è sempre un qualcosa che sfugge di comprensione impossibile.
Possono raccontarmi che Cassius Clay ha deciso di prenderne più possibile perché così sapeva di sfiancare l’avversario, che ha sempre avuto tutto sotto controllo ed ha solo teso una brutta trappola al suo fortissimo avversario. Io non ci credo, per conto mio davvero lì Cassius Clay ha rischiato di finire la carriera in modo inglorioso ma è riuscito a stare in piedi pur prendendone tante ma talmente tante, che appena si è aperto uno spiraglio di speranza sarebbe stato semplicemente folle non incunearcisi dentro immediatamente. Non credo che Clay non fosse mobile sulle gambe perché così poteva permettere a Foreman di picchiare di più, era poco mobile per condizione, non per scelta. Poi è scattato un qualcosa. Il miracolo di Clay è stato di salire sul ring, di convincere l’Africa che poteva farcela, di continuare a prenderle senza crollare al tappeto. Poi ha vinto perché era un grande pugile. Ma senza la Magia non avrebbe vinto. Attenzione che non è una Magia che ha a che fare con la religione. E’ una magia che riguarda lo sport ed è assolutamente ecumenica perché va ad alterare la tua prestazione sportiva di qualunque religione tu sia. Non c’entra con la politica, perché non ha colore politico. E’ sport ma va al di là dello sport e fa capire che nello sport c’è un qualcosa di più che si fa fatica a definire, nonostante gli sponsor.