Ancora sull’intensità ideale degli stimoli allenanti

“Passi da un estremo all’altro: dai tuoi polpettoni sulle intensità soft per non stressare troppo l’atleta all’ipotesi che una bassa quantità di stimoli altamente stressanti (addirittura traumatizzanti secondo un’ipotetica “teoria dei traumi”) possa essere decisiva per informare il processo di addestramento sportivo…”.

 

In effetti su queste cose non si possono fare discorsi pressapochisti, non si può esternare la convinzione di quanto sia importante la fisiologicità del carico di allenamento (anche per porsi al riparo dalla necessità di dover essere costretti ad usare farmaci per porre rimedio ad eventuali danni) e poi ipotizzare che possa aver fondamento una teoria dei traumi che descriverebbe l’importanza fondamentale di certe situazioni limite, rare e difficilmente ripetibili.

Intanto devo restringere il campo di analisi di questo presunto discorso sull’utilità dei vari stimoli allenanti. Se parliamo di stimoli allenanti parliamo di sedute di allenamento o al più di gare. Comunque di cose che andiamo a fare con il preciso obiettivo di costruire uno stato di forma, non di eventi fortuiti, cose che immaginiamo e poi mettiamo in atto con un preciso obiettivo. Quando accennavo ad una presunta “teoria dei traumi” ipotizzata dal prof. Franco Colle di Udine accennavo ad un qualcosa di più ampio, comprensivo di eventi anche del tutto fortuiti, che vanno ad informare l’esistenza di una persona in ambiti che possono anche non c’entrare nulla con quello sportivo. Per cui un soggetto, per un qualcosa che non c’entra proprio nulla con l’atletica va a modificare in modo decisivo il suo rendimento, in meglio o in peggio, in una determinata competizione perché ha “subito” un evento altamente traumatizzante che può modificare in modo significativo tutte le gesta del soggetto in questione. Parliamo di cose imprevedibili, di fatti della vita che non si possono schematizzare né, tanto meno, programmare.

Di queste cose si può certamente discutere per non far finta di aver in mano il processo di addestramento come se fosse una stupidata da regolare con poche mosse come su una centralina di computer ma non possiamo certamente aver la presunzione di andare a studiare come poter alterare anche la portata degli eventi che non c’entrano nulla con la preparazione sportiva.

Si tratta di capire allora se questa presunta “teoria dei traumi” può avere un certo significato anche con riferimento ad alcune particolari sedute di allenamento e/o gare.

Intanto una mia convinzione: un eventuale effetto positivo di queste sedute può esistere solo se il livello di fatica patito nell’esecuzione di queste sedute e/o gare non è stato sproporzionato rispetto alla qualità dei gesti prodotti in quella seduta. Mi spiego: se un atleta che vale 1’43” sugli 800 metri ha speso una fatica mostruosa per correre delle prove sui 400 metri in allenamento in 52″-53″ non penso che quella fatica, da sola, sia stata sufficiente a dare informazioni per ottenere qualcosa di nuovo, qualcosa di utile nel processo di allenamento. E’possibile però che quelle prove, soprattutto se mai corse a quell’intensità da quell’atleta possano avere un certo effetto allenante, nonostante la fatica patita, ma io ritengo, solo nell’ipotesi che non siamo mai state corse con quella “qualità”. In caso opposto e cioè la ripetizione di un qualcosa già fatto ma con fatiche “nuove” a mio parere non ha nessun senso. Sono certamente opinioni personali, non c’è alcun tipo di studi scientifici in proposito. Premesso ciò avete già capito cosa io potrei accettare per traumatizzante ed utile in allenamento. Si tratta di introdurre il concetto di trauma positivo ed è un qualcosa che tutti ci auguriamo di subire. E’ quel qualcosa che prima o poi nella carriera di un atleta accade sempre ma è molto rara e può succedere che non accada anche per anni. Sto parlando della seduta di allenamento (o anche della gara, perché no?) durante la quale l’atleta riesce a produrre qualità decisamente superiori rispetto al suo standard abituale senza avere grandi sensazioni di fatica. Sono i momenti nei quali l’atleta si dice essere in “forma”. In presenza di queste situazioni possiamo reagire in modi diversi: per esempio abbassando l’intensità di allenamento riportandola ai livelli di quella delle sedute precedenti, oppure continuando su ottime intensità e mantenendo lo stesso grado di fatica che non è una fatica limite oppure ancora approfittando della situazione propizia per aumentare il livello di fatica (quasi come se si fosse in gara) e raggiungere intensità di allenamento ma i raggiunte prima per quell’atleta.

Allora, con riferimento a questa situazione io mi dichiaro favorevole all’atteggiamento di chi continua a tenere elevate intensità tentando di mantenere anche un livello di fatica ragionevole anche se ammetto che l’atteggiamento dell’atleta che è disposto ad incrementare il livello di fatica per sperimentare intensità nuove non penso che sia del tutto scriteriato. Faccio più fatica a capire, invece, l’atteggiamento di chi accontentandosi di intensità certamente soddisfacenti riduce l’impegno di quella seduta abbassando ulteriormente il livello di fatica che già non è ai limiti.

Insomma avvallo, almeno parzialmente, la teoria dei traumi nel senso che dico che “quel giorno che stai facendo delle cose che per un motivo o per l’altro sono al di là delle tue capacità abituali è un giorno decisamente importante e può valere molto più di una serie di sedute di allenamento meno significative. Pertanto è opportuno concentrarsi su quella circostanza o per assaporare bassi livelli di fatica su intensità alte o addirittura sperimentando intensità massimali andando ad incrementare ulteriormente il livello di fatica. Per non far fatica ci sono altri giorni, quel giorno lì fanne poca o tanta ma non rinunciare a farla perché è un  giorno importante.”

Questo, ovviamente, con riferimento al processo di allenamento in generale e non con preciso riferimento ad una gara imminente perché se c’è una gara imminente ed è pure importante, con riferimento a quella la parola d’ordine è una sola “Controllare lo stress e la fatica per arrivare alla gara con le energie nervose ben disponibili”.

E così arrivo ad un altro mio teorema che è che dopo un allenamento altamente traumatizzante (in senso positivo) la gara è quasi sempre un bel bidone perché in quell’allenamento sono state spese molte energie nervose. L’effetto positivo di quell’allenamento altamente traumatizzante pertanto si potrà esplicare dopo un certo periodo (e se è davvero altamente traumatizzante arrivo anche a dire l’anno dopo perché qui c’entrano le mappe cerebrali che non si cancellano e non la condizione muscolare che scade in pochi giorni) ma certamente non dopo pochi giorni.

Dunque esistono delle sedute di allenamento, così come delle gare, che per cause anche insondabili sono decisamente diverse da altre. Io non penso che vadano sottovalutate, inutile cercarle in modo spasmodico, quando si concretizzano è doveroso dare loro la giusta importanza.

Questo discorso vale per le gare e si arricchisce di altri dettagli. Il giorno che è possibile una gran gara a sorpresa è importante valutare l’opportunità di sfruttare la situazione. Se l’obiettivo è una gara seguente che non c’entra nulla con quella ed è molto importante può anche essere sensato rinunciare al risultato e risparmiare energie nervose per la gara successiva. Se, al contrario, nonostante un certa programmazione finalizzata ad un altro momento della stagione anche quella gara può diventare una buona occasione di crescita agonistica non ha senso perdere quell’occasione. Tu puoi programmare la tua stagione per filo e per segno in vista di un preciso obiettivo ma è possibile che per cause insondabili lo stato di forma arrivi in anticipo o in ritardo su quel momento. E’ lì che puoi fare cose nuove, anche se non era previsto.

Spezzo una lancia a favore dell’idea del non programmare del tutto il momento top della stagione, la spezzo con un’altra teoria. E’ una teoria che sta in piedi per atleti non professionisti perché il professionista ha poco da giocare con la programmazione sportiva ed è professionista proprio in quanto indovina lo stato di forma giusto al momento giusto. Le gare nelle quali monetizzare non sono tante ed è in  quelle che devi rendere se sei un vero professionista. Dico una scemata ma non  è del tutto una scemata: se fai il record del mondo nella gara sbagliata può valere la metà del danaro (o anche meno) di quello che può valere nella gara giusta: per un professionista non sono dettagli trascurabili.

Allora, a prescindere dalla necessità di programmare con precisione io dico che un qualsiasi atleta nel corso di una stagione può fare una, due, al massimo tre gare al top, poi cinque-sei ad un buon livello e poi tutte le altre ad un livello che non  può essere massimale, altrimenti è un “finto livello massimale” ma non è un livello massimale autentico. Questa affermazione non riguarda la competizioni sulle lunghe distanze, dai 10.000 metri in sù dove, per esempio, sostengo che una maratona ad altissimo livello sia possibile una volta sola all’anno se non addirittura ogni due anni per un atleta di livello mondiale.

Trattando delle altre gare dell’atletica c’è chi, soprattutto a livello amatoriale, ha la presunzione di tentare il rendimento massimale dieci o dodici volte all’anno. Un atleta che si comporta così, a mio parere, è un atleta che non sa nemmeno cosa sia l’intensità massimale. Posso capire un lanciatore che nella settimana che è più un forma si fa tre o quattro gare solo in quella settimana e che può arrivare a fare anche 10 o 12 gare in un mese, ma anche per quel lanciatore ad un certo punto il momento top svanisce ed è difficile che duri più di un mese. Se piglia la gara record, a forza di gareggiare, il mese successivo probabilmente è stato talmente sfortunato da non centrare mai il lancio giusto nel mese nel quale era in forma ed è in tal senso che alcuni atleti gareggiano a raffica nei momenti migliori o nei momenti immediatamente successivi allo stato di forma.

Gli atleti americani hanno l’incubo di dover creare nelle stagioni importanti due volte lo stato di forma per superare le difficili selezioni americane prima e poi per affrontare la competizione importante. Non è un problema da poco ed i Keniani lo risolvono… cambiando nazione. Visto che andare in forma due volte è molto difficile tanto vale presentarsi alla competizione importante con la maglia di uno stato che non ti chiede di andare in forma anche per superare le selezioni due mesi prima della gara importante.

Dunque, dal mio punto di vista, estrapolando anche dalla teoria dei traumi, oltre che guardando a cosa succede nel mondo ad alto livello, io ritengo che le intensità molto elevate possano essere certamente decisive per costruire lo stato di forma ma penso anche che tali intensità non devano essere reiterate in modo scriteriato: pena il disconoscimento da parte del nostro delicato organismo di quelle che sono le vere intensità massimali. Il mio ultimo teorema pertanto è “Chi va al massimo ogni tanto va davvero al massimo e proprio per questo ci va poche volte; chi va al massimo sempre in realtà è un atleta che non va mai al massimo e se vuole imparare a capire la differenza fra intensità massimale e intensità sub massimale al paradosso deve imparare a staccare il piede dall’acceleratore, sperimentare nuove intensità di carico e, scoperte le più esigue riuscirà, in un secondo momento, a scoprire anche la massimale che credeva di aver già scoperto ma in realtà non era mai riuscito a provarla.”