ANCORA SULLA FATICA, ANCORA CON PIU’ CAOS…

Scrivere di fatica senza fare caos è un’ impresa impossibile, il concetto di fatica è troppo impalpabile per potersi prestare ad interpretazioni inequivocabili. E’ nella consapevolezza di ciò che riprovo a scrivere di fatica, sapendo che il fraintendimento e l’equivoco sono sempre dietro l’angolo.

Partiamo da un concetto base disorientante ma non molto campato in aria. Molti fanno sport per fare meno fatica. La vita senza sport può essere più faticosa. Da un punto di vista fisico perché se non sei allenato fai fatica a fare anche una rampa di scale e quel giorno che è rotto l’ascensore e devi andare al terzo piano è quasi come fare la Maratona di New York, e anche da un punto di vista psicologico perché lo sport può essere quella nota gaia che vivacizza un’ esistenza troppo inquadrata nella routine quotidiana.

Allora il paradosso è questo: lo sport che dovrebbe essere quell’accidenti che ti insegna a fare fatica perché nello sport la fatica è mitizzata e pare quasi che certi campioni riescano a vincere perché sanno fare più fatica degli altri è in realtà quello strumento con il quale tentiamo di fare meno fatica e insistendo nel paradosso, pare pure che sia lo strumento giusto perché è proprio l’ambito nel quale la fatica viene studiata a fondo. Se si studia bene la fatica, la si comprende e si riesce a “domarla” aumentano le possibilità di successo nello sport dove molte volte il limite alla prestazione è fornito proprio da un eccesso di fatica.

Ho una mia teoria sulla fatica dei grandi campioni. Guardate l’arrivo di una corsa di resistenza per capirla. Non occorre un’eterna maratona (vi vanno via un sacco di ore e alla fine fate parte di quelli che hanno fatto molta fatica) basta una mezza maratona o anche una semplice 10 chilometri. Basta che sia un qualcosa che vi permette di scrutare bene le sensazioni di fatica dei primi classificati e pure degli ultimi. Se è una gara sui dieci chilometri in poco più di venti minuti ve la cavate perché ne giro di venti minuti arriva la maggior parte del resto del mondo che non riesce a correre come il vincitore. Il vincitore forse ha fatto abbastanza fatica, soprattutto se è arrivato allo sprint finale (nel qual caso ha fatto fatica nel tratto finale di gara ma non è detto che abbia fatto fatica per tutta la gara) o se magari voleva battere qualche record pur avendo il secondo classificato a debito distacco. Gli altri appariranno senza dubbio più affaticati. Il secondo tanto più è vicino al primo anche per aver patito la delusione di aver rimediato la sconfitta quasi certamente nelle fasi finali della gara. Gli altri via via affaticati con sensazioni diverse ma più o meno sempre senza dare la sensazione che potevano fare molto meglio, altrimenti sarebbero arrivati più vicino al primo. Alcuni un po’ meno affaticati si cominciano ad intravvedere nelle retrovie, sono coloro che hanno interpretato la gara come un mezzo allenamento e hanno deciso di non dar fondo alle loro energie in quella determinata gara. Poi però se ne vedono anche di quelli che non sono certamente in linea con questa sensazione e, al contrario nel tratto finale pare che si stiano giocando il podio olimpico e così assistiamo a sprint assatanati per giocarsi la ottocentosettantacinquesima posizione con tanto di quasi stramazzamento finale e quegli sprint sembrano quasi più violenti di quello che ha garantito la vittoria al primo classificato e non è difficile spiegare perché. Il primo classificato su un dieci chilometri, ammesso che abbia avuto bisogno dello sprint finale per aggiudicarsi la vittoria arriva al tratto finale correndo più o meno ai 20 chilometri all’ora, facciamo 22 o anche 23 all’ora se è un atleta di altissimo livello. Da quella già ottima velocità può essere costretto a portarsi a quella di 25 o anche 26-27 chilometri all’ora, se lo sprint è più o meno violento, per vincere. Dunque in tale cambiamento di velocità non fa altro che accelerare in modo più o meno progressivo del 15-20 massimo 25% rispetto alla sua velocità di ingresso nel tratto conclusivo. E’ certamente un buon incremento ma non è una cosa proprio pazzesca. E come un’ auto che in autostrada viaggiava ai 110 km/ che per chissà quale motivo si mette a viaggiare ai 130. Si nota l’incremento ma non è che se passa la polizia vada a bloccarlo subito per indagare sullo strano comportamento.

Quando il tapascione che si sta classificando ottocentosettantaseiesimo si presenta sul rettilineo finale si accorge che l’ottocentosettantacinquesimo posto è alla sua portata probabilmente sta viaggiando vicino agli 11-12 chilometri all’ora. Improvvisamente aumenta ai 15 km/h e visto che l’altro reagisce passa ai 20 e poi pure ai 22 chilometri all’ora. In pochi istanti per ottenere quello stramaledetto ottocentosettantacinquesimo posto ha letteralmente raddoppiato la velocità, è come se un’ automobile in autostrada fosse passata in pochi istanti dai 110 km/h ai 220, se c’è una pattuglia nei dintorni, ammesso che ce la faccia ti corre dietro  e ti blocca appena possibile. E’ un qualcosa di decisamente clamoroso,  netto, facilmente percepibile, nel caso della circolazione stradale anche decisamente pericoloso, nel caso della pratica sportiva speriamo non pericoloso anche se ci tocca ammettere che è la situazione più stressante dell’intera gara sia a livello cardiaco che a livello muscolare tanto è vero che molte volte l’ottocentosettantacinquesimo non ci sta a reagire non perché non sia in grado di correre anche lui ai 22 chilometri all’ora in quel tratto di gara ma semplicemente perché non vuole andare in cerca di rogne portando improvvisamente l’organismo in fuori giri dopo una gara condotta interamente su altri ritmi.

Secondo voi ha fatto più fatica il vincitore o chi ha ottenuto l’ottocentosettantacinquesima posizione? Almeno con riferimento allo sprint finale quasi di sicuro chi si è piazzato nelle retrovie. A parte questi dettagli non è difficile scorgere,, nelle competizioni dove partecipano sia atleti affermati che atleti “della domenica” un diverso modo di interpretare la fatica che molto spesso è decisamente meno plateale (ma non solo plateale, anche effettiva) negli atleti di alto livello rispetto agli sportivi occasionali.

L’idea che il campione sia un personaggio che sa reagire alla fatica meglio dei comuni mortali forse deve cedere il passo al concetto che in realtà l’atleta professionista che si allena tutti i giorni o anche due volte al giorno per necessità di cose sia sempre più addestrato ad affrontare la fatica nel miglior modo possibile. Non fa più fatica degli altri, riesce solo a sostenere gli impegni che gli altri fanno con grande fatica con una fatica più contenuta. Così come non ci si allena a sopportare gli stress, si può solo semplicemente vivere con meno stress possibile situazioni potenzialmente stressanti, non ci si allena a sopportare picchi di fatica sempre più elevati quanto ci si può addestrare ad evitarla in situazioni  che con un addestramento ottimale possono essere affrontate con un livello di fatica via via decrescente.

Altro mistero sulla fatica è se ci possa essere interferenza fra fatica “psicologica” (molto difficile da definire) e fatica “fisica” (più facile da quantificare addirittura con la rilevazione di parametri bioumorali ed altri indicatori rilevabili in laboratorio). Ebbene lo scrivente è convinto che possa  esistere un’interessante correlazione fra questi due tipi di fatica ed in particolare una certa condizione psicologica di notevole euforia potrebbe avere addirittura un effetto parzialmente “anestetizzante” nei confronti della fatica. Per intervenire sui meccanismi psicologici di produzione della fatica non è certamente necessario adoperare farmaci o strategie di allenamento particolarmente complesse, basta essere un po’ attenti a livello pedagogico e costruire un rapporto di fiducia fra allenatore ed atleta. L’atleta che non ha un grande carico psicologico e risolve bene le varie situazioni potenzialmente stressanti legate all’allenamento non aggiunge fatica psichica a quella già consistente di tipo fisico e pertanto può avere anche una percezione pur se non anestetizzato, della fatica inferiore a quella dell”atleta che è gravato anche da un gran carico psicologico.

Sono discorsi decisamente opinabili ed il lessico attorno ai quali può creare anche notevoli fraintendimenti ma sono utili almeno per liberarci dell’antico clichè secondo il quale l’atleta più forte è quello che riesce a sopportare la fatica meglio degli altri. Non è così, l’atleta più forte e, soprattutto, quello che dura più degli altri è proprio quello che fa meno fatica degli altri e pertanto non si ingolfa di fatica, non ha nemmeno bisogno di studiare strategie per sopportare livelli di fatica sempre superiori perché si concentra invece su soluzioni prestative dove la fatica è sempre più contenuta, non annullata ma ridotta notevolmente soprattutto con riferimento all’alto livello prestativo che si vuole raggiungere. Appena si mette in moto il campione fa comunque fatica, non funziona gratis, ma mentre l’atleta di basso livello va incontro a verticalizzazioni della fatica repentine e ed improvvise quando il carico aumenta, a questo aumento l’atleta di alto livello abbina aumenti del carico di fatica che sono del tutto proporzionati, non improvvisi e facilmente gestibili anche da un punto di vista psicologico oltre che fisico. Il campione è un maestro della fatica non perché ne faccia più degli altri ma perché, conoscendola bene, riesce ad evitarla.