CONSIDERAZIONI DA SPIAGGIA SULL’ATLETICA

Estate, gente che si trova, si sta in compagnia, si cazzeggia, si guardano le partite della nazionale di calcio in televisione e si fanno considerazioni strane che durante l’inverno, frullati nella routine dello stress si fatica a fare. Guardo abbastanza il calcio alla televisione, forse un po’ troppo per essere coerente con la mia predicazione che insiste sul praticare lo sport più che guardarlo in televisione. Guardando il calcio penso che è stato il mio primo amore come sport un po’ come la maggior parte degli italiani maschi (a livello femminile qualcosa si sta muovendo ma la pallavolo regna indisturbata parecchi scalini più su…), poi il grande tradimento. A tredici anni sono passato all’atletica da un giorno all’altro di punto in bianco e non me la sono più cavata. Anche come master sono inequivocabilmente un master dell’atletica e penso che se facessi una partita di calcio adesso dovrei abbandonare il campo dopo pochi minuti non per problemi di resistenza ma per problemi articolari di tutti i tipi, problemi che tento di far convivere con la pratica di un’atletica molto soft ma che non ho mai provato a passare al vaglio di una anche ridottissima partita di calcio o di calcio a 5.

Pensavo perché il mio tradimento verso il calcio è stato così netto ed inarrestabile. Alcune sono questioni squisitamente personali, altre no.

Intanto il momento: tredici anni è l’età giusta per iniziare a praticare l’atletica. Al giorno d’oggi molti ragazzini cominciano prima ma non so se sia una scelta azzeccata. Le dinamiche dei giochi di squadra le vedo più centrate sulle necessità di gioco dei ragazzini e non so dire se io avessi iniziato a praticare atletica a dieci anni come fanno molti ragazzini adesso, se sarei rimasto lì.

Accade, ai ragazzini che iniziano l’atletica così presto che venga messo bene in evidenza l’aspetto giocoso e poliedrico come è giusto che deva essere a quell’età ma che nella focalizzazione di quell’aspetto si perda di vista un po’ l’analisi di gioco profondo che è anche insito nell’atletica. L’atletica è indubbiamente un gioco profondo è lo è nella naturalezza della sua semplicità nella sua inequivocabile chiarezza della misurazione che dà sempre, giorno dopo giorno, un riscontro dello stato dell’arte. Con l’atletica si gioca ma c’è poco da bluffare: il cronometro ed il metro sono impietosi e sono giudici imparziali e severi.

Il ragazzino che inizia proprio giocando con uno spirito quasi più fanciullesco di quello dei giochi di squadra si ritrova verso i tredici quattordici anni ma ancora di più verso i sedici, diciassette a fare i conti con delle esigenze di risultato che anche se sempre mascherate e minimizzate sono presenti ancor più nell’atletica che nel calcio. Mentre a dieci anni questo aspetto non è minimamente considerato ed anzi qui ti diverti anche se non fai goal, comunque salti, comunque lanci, comunque corri ed il tuo correre è gioioso anche se non è altamente prestativo, a differenza che nel calcio, dove se non segni ti annoi pure a dieci anni, questa semplicità alcuni anni più tardi ti rendi conto che diventa l’ingrediente di un agonismo che anche se non è esasperato è terribilmente onnipresente nell’atletica.

Nell’atletica la quantificazione del risultato è sempre facilmente determinata. Dopo, darne una valutazione qualitativa è ben altra cosa ma c’è comunque sempre un numero, sia esso un tempo o una misura, che ti dice “quanto” sei distante da un certo risultato. Questa è una bella cosa da un certo punto di vista perché ti può dare stimoli per migliorare e può essere anche una cosa pesante da altri punti di vista perché ti mette crudamente a contatto con una realtà oggettiva che non può contare sull’effetto anestetizzante della squadra, del gruppo. L’atleta in crisi, ben mascherato in una squadra che funziona bene, si evidenzia subito nello sport individuale nella sua crisi addirittura nella staffetta che pur se squadra è decisamente impietosa nei confronti di un improvviso calo di rendimento del singolo.

L’individualità che è un limite dell’atletica ne è anche la sua grande libertà ed il principale motore del pionierismo che è quel fenomeno per il quale se un’atleta completamente svitato ha tempo e voglia di allenarsi anche tre volte al giorno, più di un professionista, sempre che la salute regga, può anche farlo. Questa cosa non ha senso negli sport di squadra (ed io direi soprattutto nel calcio) dove la crescita esclusiva di un solo atleta in modo disarmonico ed improvviso non produce effetti di notevole entità sul gruppo e di conseguenza non da grande beneficio nemmeno al singolo.

Nell’atletica è il singolo allievo a decidere di sé stesso e, udite udite, può anche farlo in disaccordo con l’allenatore, cosa che negli sport di squadra reca sempre danno sia al gruppo che al singolo. L’allenatore, importantissimo sia negli sport di squadra che negli sport individuali, può trovarsi in questi ultimi compiti decisamente diversi rispetto a quelli un po’ più standardizzati contemplati negli sport di squadra. Il cavallo pazzo che negli sport di squadra è quasi più una minaccia che una risorsa è nello sport individuale sempre un’opportunità interessante e mentre negli sport di squadra il suo essere anomalo è un problema nello sport individuale ci tocca ammettere che questa sua caratteristica è sempre potenziale indice di grande crescita sportiva anche in assenza di un talento fisico conclamato.

Il pionierismo, la sperimentazione di nuove tecniche di allenamento sono certamente possibili in atletica dove un allenatore ti può indirizzare verso protocolli razionali di preparazione ma non può importi il suo punto di vista per il semplice motivo che per l’atleta singolo è molto più facile cambiare allenatore che per una squadra ed è forse quello il motivo per cui le squadre continuano a cambiare allenatore ma il campione anche affermato molto spesso non cambia allenatore per tutta la carriera. Il rapporto allenatore squadra si fonda su equilibri complessi e molte volte salta per dinamiche che non c’entrano nemmeno tanto con lo sport o almeno con il rendimento della squadra. Il rapporto allenatore atleta di sport individuale è diverso, apparentemente più semplice ma probabilmente più profondamente complesso e può stare in piedi anche quando pare che non funzioni per un semplice motivo: mentre per un allenatore di squadra non è impresa insormontabile conoscere una nuova squadra ed imparare a guidarla, per un allenatore di un atleta che ha già iniziato una carriera sportiva piuttosto ingombrante cambiare atleta ed andare a prendere un atleta che già per metà carriera ha fatto la stessa cosa con un altro allenatore è impresa epica. Non è l’atleta che non ce la fa, è l’allenatore che non ci capisce niente perché non ha assistito all’evoluzione di alcuni processi dell’addestramento che l’unico modo per capirci qualcosa era viverli giorno per giorno. Insomma è quasi come diventare genitore di un figlio adottato piuttosto tardi.

E’ più facile per un atleta che ha sperimentato grandi carichi di allenamento restare senza tecnico che non andare in cerca dell’assistenza di un tecnico che di questi carichi non ne sa proprio nulla.

Sono discorsi da spiaggia, o di vita vissuta, sui libri non si trovano e rendono l’atletica uno sport affascinante, piuttosto imprevedibile e che è perennemente condannata (io dico per fortuna) a lasciare spazio ad un pionierismo che ne è il sale in termini di preparazione ed addestramento.