In questi giorni di caldone dove consigliare intensità e quantità ridotte di carico è fin troppo facile, mi viene in mente che, con riferimento a certe intensità di allenamento, io mi trovo cronicamente a consigliare intensità che sono un po’ inferiori a quelle consigliate dalla maggior parte dei colleghi.
Lasciando da parte la cosiddetta attività di “mantenimento” che ha esclusivi fini salutistici e dove io insisto sempre nel dire che anche intensità molto basse di carico sono certamente utili per la salute se non si ha l’ambizione di migliorare le capacità prestative, anche con riferimento agli atleti agonisti, siano essi amatori o anche atleti di un certo livello, io ho consolidato delle convinzioni che mi hanno portato alla formulazione di un teorema.
Sottolineo il fatto che questo “teorema” mi è venuto in mente in questi giorni di caldone ma io ritengo che sia riferibile a tutti i momenti dell’anno per corridori di medie e lunghe distanze che frequentano abitualmente la pista. Tale teorema non è, a mio parere, estensibile alla categoria dei velocisti che, per altre problematiche di allenamento, ritengo che purtroppo siano condannati a toccare le elevate intensità di carico se non vogliono incappare in una stagnazione dei risultati agonistici.
Allora il teorema di PTG sulle intensità di carico in pista è il seguente: “Preso un atleta agonista, di qualsiasi età (purtroppo anche i più esperti…) e di quasi qualsiasi livello (lasciamo perdere i campioni che hanno problematiche di allenamento un po’ più complesse di quelle alle quali accenno solitamente io…) che frequenta regolarmente la pista e si allena per migliorare i risultati sulle medio-brevi e lunghe distanze in atletica (diciamo dagli 800 alla Maratona) l’intensità delle prove in pista ideale a farlo progredire nel modo migliore è… sempre un po’ più bassa di quella che comunemente questo atleta cerca di tenere negli allenamenti in pista.”
Questa cosa non è assolutamente dimostrabile e, se avessi sette vite le impiegherei a fare un curioso esperimento sulla supercompensazione per dimostrare che è così.
Un ideale esperimento sulla supercompensazione andrebbe condotto così: si piglia un atleta e lo si fa allenare con lo stesso sistema ma solo alterando l’intensità delle prove in pista secondo sette intensità diverse, dico sette perché viene fuori dalle sette vite ma anche 4 o 5 ci potrebbe dare dei dati interessanti, tre poco, due no. Un esperimento su due sole intensità di carico non può fornirci indicazioni utili, può venire fuori che una è troppo bassa e l’altra troppo elevata e non riusciamo a capire niente. Sette vite, sette intensità diverse. Tenendo invariati gli altri parametri potremmo scoprire quale di queste sette intensità è quella che produce gli adattamenti migliori è io sono convinto (per mio “credo” personale, senza nessun supporto scientifico a sostegno di tale idea) che scopriremmo che l’intensità ideale è uno scalino sotto a quella che la maggior parte degli atleti adotta in pista.
La mia convinzione è che gli atleti in pista siano sempre tesi alla ricerca di quel qualcosa in più che alla fine rischia di guastare l’allenamento, poi accade che questi atleti che si scatenano in pista in allenamento come se fossero perennemente in gara sono gli stessi che finiscono per condurre, magari il giorno dopo, allenamenti fuori pista ad intensità irrisorie, magari raccontando barzellette al compagno di allenamento per tutta la durata della corsa fuori pista. Non dico che caricano sempre troppo, tendono a caricare troppo quando sono in pista. Mentre quando vanno a correre fuori pensano se è il caso di spingere un po’ di più o un po’ di meno (certamente fanno delle belle fatiche anche fuori pista ma, giustamente, non sempre) quando vanno in pista scatta un meccanismo per cui “oggi pista-oggi fatica”. Molte volte mi è capitato di sentire “Oggi non me la sento di fare pista, non ce la faccio” e questa affermazione vuol proprio dire che la seduta su pista viene ritenuta sistematicamente molto impegnativa. Per scherzare a volte io ho affermato ribattendo a chi diceva così: “Oggi non me la sento di uscire, sto in pista così se volto via mi tirano su prima…”. Chiaramente la mia è una battuta provocatoria ma dove sta scritto che quando un atleta non vuole correre ad intensità elevate deve assolutamente scappare dalla pista? Esiste un limite di velocità minima in pista? Questo assolutamente non esiste fuori dove si può passare anche tutta la seduta di allenamento a raccontare barzellette (e, per carità può anche essere l’intensità migliore per quel giorno ma un po’ stridente al confronto di quella molto severa della pista)?
Non abbiamo sette vite e ci è impossibile continuare a sperimentare nuove intensità di carico per selezionare la più opportuna. Per quello che ho visto l’atleta che riesce a controllare la corsa, anche e soprattutto in pista, è quello che riesce ad ottenere i benefici migliori dall’allenamento, per controllare la corsa è evidente che non si può correre al massimo. Correre al massimo è il miglior presupposto per corrersi addosso e fare fatiche che possono creare problemi di recupero accumulandosi e rendendo il processo di allenamento molto stressante.
Poi ci sono le sensazioni, ma quelle sono difficili da trasferire, io posso vedere una cosa ma l’atleta ne sente un’altra. Sulle sensazioni sto ancora sperimentando su me stesso. Una sensazione è che stare abbastanza vicino ai carichi massimali trent’anni fa mi costava un po’ meno di adesso. Ma forse quella è una sensazione sbagliata. Per cui la vecchiaia è quel fenomeno per il quale cominci a sentire sensazioni sbagliate. Ovviamente scherzo, è evidente che proprio gli amatori dovrebbero aver affinato quella capacità di recepire la fatica nei dettagli e per l’amatore esagerare con i carichi, scusatemi l’espressione, ma è da veri e propri pirla. Buone sensazioni a tutti.