Ho sempre scritto che quando un interlocutore che vi parla di attività motoria usa troppi termini in inglese, pur non essendo di madre lingua inglese, è opportuno diffidare un po’ nel senso che o vuole fare caos, o non sa cosa dirvi o proprio non sa l’italiano nel senso che gli mancano quelle 300-400 parole che in molti abbiamo smarrito per l’avvento dei telefonini e pertanto tenta di sopperire alla lacuna usando 20 o 30 vocaboli di inglese che non possono certamente sostituire 300 o 400 parole di italiano.
Ciò che avviene da tanti anni nelle palestre private sta iniziando ad accadere anche per le attività all’aperto quali la corsa e la bici e dunque ecco che in luogo dei podisti e dei ciclisti abbiamo i runners ed i bikers.
Parlando in italiano e di gente che conosce l’italiano, una prima distinzione fra podisti-ciclisti e runners-bikers dovrebbe essere che mentre i primi sanno correre e sanno anche andare in bicicletta i secondi non sanno correre e non sanno nemmeno andare in bicicletta. Forse è proprio una questione lessicale nel senso che sono privi delle parole necessarie per evolvere la loro arte. Poi, io, che sono prevenuto su queste cose, aggiungo che purtroppo si inserisce dentro una questione di business che è proprio un termine inglese (in italiano più o meno sta a significare interesse economico) che va “creare ignoranza” (strano questo concetto di “creare ignoranza”, istintivamente si potrebbe pensare che l’ignoranza la si possa solo sconfiggere e non anche “creare”…), a fare in modo che il normale podista o ciclista non possa evolversi come “normale podista” o “normale ciclista” e diventi invece un “runner” oppure un “biker”.
Purtroppo, ripeto, mancano alcune centinaia di parole che si sono inevitabilmente perse con l’avvento dei telefoni cellulari e della comunicazione telegrafica. L’ingresso nel “mercato” (è proprio il caso di scrivere “mercato”) di alcune decine di termini in inglese non ha fatto altro che generare caos e peggiorare la situazione.
Un esempio banale: vedete un po’ quanti “runners” o quanto “bikers” sanno cosa vuol dire “aspetto qualitativo della preparazione sportiva”. Voi mi risponderete che anche i normali corridori o ciclisti al giorno d’oggi ormai non sanno più nulla di queste cose. Ma mentre i primi se si ostinano ad usare l’inglese per cose che vanno studiate in italiano (è tutta gente che parla comunemente l’italiano come madre lingua, anche se un italiano triste) hanno rinunciato in partenza a capirci qualcosa, i secondi, se con tanta pazienza e buona volontà riescono a riprendere alcuni di quei 300 o 400 vocaboli sepolti dal telefonino, forse avranno qualche possibilità di capirci qualcosa in più in termini di podismo e ciclismo. Come minimo, alla fine di un certo percorso potranno affermare: “Guarda ho iniziato ad andare a correre/andare in bici, non è che sia migliorato molto ma, siccome volevo migliorare, per parlarne con il tecnico sono stato costretto a reimparare la lingua italiana altrimenti dovevo comunicare a gesti oppure anche con termini in inglese che fanno solo che casino.
Associato ad un uso indiscriminato ed assolutamente inopportuno di una certa quantità di vocaboli in lingua inglese, nella preparazione sportiva moderna vi è anche l’infiltrazione capillare, monotonamente reiterata e a tratti quasi ossessiva di alcuni parametri quantitativi della preparazione fisica, uno fra tutti il mitico tormentone delle frequenze cardiache che ormai dovrebbe essere morto e sepolto da qualche decennio visto che le mode non durano più di qualche anno.
Mancano molto, in giro, personaggi che abbiano il coraggio di dire: “Io corro a modo mio, a sensazione…”. E questa scelta eccentrica e anticonformista pare diventata un lusso per pochi. Sono tutti inquadrati in rigidi schemi di preparazione magari lanciati da una “applicazione” che di noi non sa proprio nulla ed ha meno dell’uno per cento di possibilità di indovinare uno straccio di preparazione anche vagamente utile per i nostri obiettivi reali (che a parole non riusciamo più a descrivere perché… ci mancano le parole, ma anche se le avessimo comunque l’applicazione non riuscirebbe a capirli perché è idiota ed è semplicemente un’applicazione e non un tecnico).
Non esiste più un podista che sappia eseguire il Fartlek che è una parola svedese che un tempo conoscevamo tutti e voleva dire “Gioco di andature” e anche se concettualmente non era proprio facile da comprendere poi riuscivamo tutti a svolgere con buoni risultati perché avevamo i numeri per capirlo, avevamo i colori sulla tavolozza per dipingerlo. Adesso se un tecnico prova solo ad ipotizzare che l’allievo si metta a fare un Fartlek lo disorienta subito in modo irreparabile.
Tutto è codificato, l’atleta ormai non pensa più, è già tanto che parli e la comunicazione con l’allenatore è scaduta molto di livello. Per dirla con un termine in inglese non c’è più feedback che vuol semplicemente dire che non c’è più ritorno di informazioni. E ti credo che non c’è più ritorno di informazioni ed è già tanto che non ti arrivi una sberla perché se chiedi un “feedback” ad un italiano vuol dire che non sai l’italiano oppure che vuoi prenderlo in giro. All’autentica relazione allenatore-atleta si è sostituito il falso rapporto “Io sono il tecnico e dunque sono il capo, tu sei l’atleta e dunque devi obbedire” che è tipico delle squadre non realmente dilettantistiche dove c’è un selezionatore con ampi poteri ed un atleta che ha rapporti economici con il club e pertanto non è realmente libero ma vincolato da un certo tipo di subordinazione.
Quando un dirigente d’azienda italiano dice al suo collaboratore: “Mi raccomando, mi faccia avere un feedback!” gli sta solo raccontando che lui è molto figo, se invece vuole entrare davvero in comunicazione con il suo collaboratore dice semplicemente: “Fammi sapere cosa succede” e magari glielo dice pure in dialetto per essere più confidenziale e migliorare la comunicazione. Portare la comunicazione “aziendale” sul campo sportivo vuol dire impoverire in modo drammatico il rapporto allenatore-atleta ed equipararlo ad un normale rapporto fra due professionisti che sono lì per servire il club, cioè l’azienda.
Forse il tutto si riduce ad una questione filosofica più che lessicale. Un tempo c’era il sodalizio sportivo a servizio dell’atleta. Il club era uno strumento per far svolgere la miglior attività sportiva possibile all’atleta. Adesso è il contrario, l’atleta è a servizio del club, che molto spesso è qualcosa di più di un club ed è invece una struttura piuttosto rigida che ha delle sue regole ben precise. Se lo sport, l’attività fisica, sono al servizio del cittadino allora il club è semplicemente uno strumento e si piega alle esigenze dello sportivo a quel punto i colori sono molti, il lessico dello sport è un lessico molto ricco e non c’è certamente bisogno di far ricorso alla lingua inglese che tende ad impoverirlo. Se invece bisogna rispettare delle direttive ben precise e si vuole offrire esclusivamente un certo tipo di approccio all’attività motoria allora è bene delimitare il campo, mettere dei paletti, limitare pure il lessico e la comunicazione se necessario pure usando l’inglese o altre strategie di copertura dell’informazione ma allora i colori diminuiscono e anche necessariamente il vissuto emotivo e la qualità dell’attività motoria scadono. Per dirla in italiano si tratta semplicemente di scegliere fra quantità e qualità. Al mercato fa comodo la quantità, allo stato dell’arte la qualità.