La mania del continuo monitoraggio delle frequenze cardiache in ambito sportivo è servita a vendere alcuni milioni di cardiofrequenzimetri ma ha lasciato sul campo un paio di disastri.
Premesso che monitorare la frequenza cardiaca per un cardiopatico è doveroso atto di prudenza nelle attività che possono comportare un impegno cardiaco piuttosto rilevante, nei soggetti sani un continuo controllo della stessa non ha nessun senso se non per fare esperimenti sui quali la letteratura sportiva ha già dilagato in lungo ed in largo trascurando argomenti ben più importanti.
Il disastro peggiore causato dalla mania del controllo della frequenza cardiaca è stato l’abbandono di quella pratica virtuosa che era “ascoltare il proprio organismo”. Ormai gli atleti non si ascoltano più rapiti dalla miopia del cardiofrequenzimetro che detta, esclusivamente sulla base di un parametro fisiologico, se stiamo esercitandoci ad un ‘intensità adeguata o meno. Quella intensità, magari adeguata per un’infinità di altri parametri, sarà rettificata se la sola frequenza cardiaca ci dirà che è opportuno rettificarla. Così è inutile ascoltarsi, se il cardiofrequenzimetro dice che va bene allora vuol dire che va bene, anche se non sto facendo fatica ed ho voglia di aumentare il ritmo, oppure anche se sono affaticato in modo indecoroso e di proseguire a quel ritmo proprio non ne ho voglia.
Il secondo disastro è stato la conseguente eccessiva importanza che si è data all’aspetto condizionale della preparazione a discapito dell’affinamento tecnico. Se l’unico obiettivo della preparazione è aumentare la cilindrata, migliorare la capacità dell’organismo di produrre prestazioni di alto livello, allora è inutile perseguire la tortuosa e lenta strada dell’affinamento tecnico. A parità di condizione fisica l’atleta più performante è quello che riesce ad ottimizzare meglio grazie ad una buona tecnica le doti organiche, se questa ottimizzazione porta via troppo tempo tanto vale migliorare le doti organiche punto e basta.
Questo è uno dei ragionamenti che hanno portato anche alla diffusione incontrollata del doping sistematico in molti sport, soprattutto di endurance. Visto che l’aspetto condizionale è determinante vediamo di servirci anche della farmacologia per migliorare da un punto di vista organico. Se dopo a livello tecnico c’è qualche lacuna niente paura: l’aumento di cilindrata dovuto ad una nuova condizione organica può pesare anche di più sulla prestazione di qualche piccola lacuna tecnica.
Tale problematica che riguarda essenzialmente gli atleti di alto livello (e dunque , per fortuna, solo qualche centinaio di atleti, anche se l’antidoping vuol farci credere che siano addirittura solo poche decine…) ha finito per informare a livello tecnico anche i contenuti sulla preparazione degli sportivi di medio e basso livello.
Se l’aspetto tecnico è stato trascurato dagli atleti di alto livello che hanno a disposizione molto tempo per la preparazione, figuriamoci quanto è stato preso in considerazione dagli atleti di livello più basso che tempo a disposizione per allenarsi ne hanno gran poco.
Insomma il disastro perpetrato sullo sport di vertice si ripercuote alla fine, come fatto culturale, anche sulla base, sulle abitudini motorie di chi con lo sport di alto livello non ha nulla a che fare.
Ciò non comporta una diffusione del doping a tutti i livelli, leggenda metropolitana che per fortuna non riguarda la maggior parte degli sportivi non professionisti, ma l’oblio completo di alcuni principi della preparazione che stanno alla base del processo di adattamento all’attività motoria, a tutti i livelli.
E’ il caso del principio della supercompensazione che, prima dell’avvento del cardiofrequenzimetro, ispirava di più le elucubrazioni dei tecnici.
Il principio della supercompensazione dice che ad ogni stimolo allenante segue una risposta fisiologica dell’organismo che produrrà adattamenti in grado di affrontare uno stimolo via via superiore. Ovviamente la supercompensazione non si manifesta in modo clamoroso ed evidente ad ogni seduta di allenamento ma con l’insieme delle sedute di allenamento proviamo ad innescarla nel modo più proficuo.
Correlato all’applicazione del principio deve essere lo studio delle intensità di carico più idonee a stimolare questa supercompensazione. Dunque non c’è più la corretta intensità cardiaca alla quale condurre l’impegno bensì la ricerca del carico più idoneo a stimolare nel miglior modo la supercompensazione. Potrebbe sembrare la stessa cosa ma non lo è. Intanto l’intensità del carico non è più misurata solo in base alla frequenza cardiaca ma anche in base ad altri parametri che, anche se non sono codificabili, condizioneranno inequivocabilmente la qualità dell’adattamento.
Poi non si ragiona più su un unico livello di carico (quello delimitato dal “range” utile di frequenza cardiaca) bensì su più intensità di carico tenendo presente quelli che erano i presupposti base del principio della supercompensazione. Assumendo in via semplificativa tre intensità di carico, bassa, media ed elevata si diceva che: 1°) Ad uno stimolo a bassa intensità corrispondeva una supercompensazione appena innescata di scarso significato, da quel punto di vista l’esercitazione poteva ritenersi quasi inutile salvo che non si verificava alcun effetto collaterale e pertanto modesto o quasi nullo il miglioramento ma assenza totale di effetti collaterali. 2°) Ad uno stimolo di media intensità corrispondeva una supercompensazione decisamente più apprezzabile e assolutamente non trascurabile. Tale stimolo non è tale da creare problemi di sovraccarico e pertanto “quasi del tutto” privo di effetti collaterali anche se, da quel punto di vista, certamente meno sicuro dello stimolo a bassa intensità. 3°) Ad uno stimolo di alta intensità corrispondeva una supercompensazione che in certi casi era ancora più elevata che nel caso due, tale supercompensazione non “garantita” da quel tipo di stimolo, ma comunque abbastanza probabile, era però accompagnata anche da una serie di inconvenienti, molto probabili, verosimilmente fattori di rischio di sovraccarico. Pertanto questa terza intensità veniva definita come potenzialmente utile ma quasi sicuramente pericolosa almeno nel suo reiterarsi.
La leggenda narrava poi che gli atleti di alto livello erano dei maestri nell’allenarsi ad intensità sempre elevata al confine con il rischio di sovraccarico e quelli più evoluti erano proprio quelli che riuscivano ad “ascoltarsi” in modo tale da stare molto vicini alla soglia di rottura senza mai superarla. Leggenda di altri tempi perchè questi discorsi ormai non li fa più nessuno.
Sarebbe utile rispolverare l’ormai antico principio della supercompensazione non tanto per ottimizzare la preparazione degli atleti di alto livello, ormai impelagati in ben altro tipo di discorsi, bensì per schiarire un po’ le idee a chiunque si accinge ad affrontare un piano di attività motoria per la salute.
Se uno stimolo a bassa intensità produce scarsi adattamenti ma anche zero effetti collaterali vuol dire che è fra le cose più consigliabili per chi si accosta all’attività motoria dopo un lungo digiuno. Pertanto, in ossequio a questo principio, si inviterà l’allievo ad ascoltarsi proprio per non forzare mai troppo.
Lo stimolo di intensità media, anche se non pericoloso, rientra comunque nel novero delle opportunità perseguibili da chi è dedito all’attività motoria agonistica perchè non ha senso aumentare le possibilità di sovvraccarico, anche se di poco, se non vi è nessuna necessità di tipo agonistico a suggerirlo.
La curiosità di mettere sotto stress il proprio organismo per vedere come reagisce potrà essere anche di chi non è agonista, a patto che questa curiosità sia modulata in modo razionale e non sia un abbandono all’istinto dell’attività motoria scriteriata. Pertanto su una base di stimoli a bassa intensità che andranno a costituire il terreno sul quale modulare l’attività motoria di chi fa prevenzione, potranno essere inseriti anche degli stimoli a media intensità, ben recuperati e non troppo inflazionati ed oltre a questi, volendo, anche degli stimoli di intensità superiore che però dovranno essere diradati e valutati attentamente nelle loro reazioni.
Il tutto ci insegnerà essenzialmente una cosa: ascoltare il proprio organismo. Questa è una delle più belle cose che può regalarci l’attività fisica alla faccia dei milioni di cardiofrequenzimetri venduti con l’illusione di venderci anche “la giusta intensità”. La giusta intensità è un’arte e non è codificabile da un aggeggio assolutamente privo di fantasia qual’è il cardiofrequenzimetro.