L’unica russa dell’atletica che parteciperà ai giochi di Rio è Darya Klishina, saltatrice in lungo e mi fa piacere che partecipi ma ho immediatamente un’obiezione delle mie: e gli altri 67 che hanno chiesto di partecipare? Sono tutti dopati fino al midollo spinale? E’ lei l’unica “pulita”, l’unica eroina dell’atletica russa? Se è così la faccenda assume contorni inquietanti perché uno su 67 vuol dire l’uno e mezzo per cento. La Russia, anche se per questa edizione dei Giochi Olimpici è stata selezionata come mega pietra sacrificale per dimostrare che l’antidoping funziona alla perfezione, dopa i suoi atleti più o meno come tutto il resto del mondo. Sono finiti i fasti dell’Unione Sovietica quando gli atleti russi erano privilegiati (o “bersagliati” perché usare troppi farmaci nello sport non è mai stata una bella cosa, ne trent’anni fa ne adesso) e potevano godere di un’assistenza medica che gli altri non avevano, adesso sono più o meno tutti ad armi pari, tutti rigidamente governati dalle norme dell’antidoping che ti dice con che farmaci puoi esagerare e con quali devi assolutamente andarci piano.
Sparare su una nazione partendo dal presupposto che tutti gli atleti di quella nazione sono dopati (e non a caso la Klishina è stata “salvata” perché risiede negli Stati Uniti) è un sistema goffo e pietoso per ammettere che l’antidoping ha toccato il fondo, che non è assolutamente attendibile e non è minimamente riuscito a contenere l’abuso di farmaci nella preparazione dello sport di alto livello.
Se l’uno e mezzo per cento degli atleti russi può partecipare alle Olimpiadi secondo le regole di questo antidoping è facile ipotizzare che il 98 e mezzo per cento di tutti gli atleti non abbiano le carte in regola nei confronti dell’antidoping perché ciò che hanno fatto i russi negli ultimi anni (e sottolineo negli ultimi anni) non è certamente molto di diverso da quanto hanno fatto gli atleti di tutte le altre nazioni. La medicalizzazione dello sport è globale, non penso che se la siano inventata i russi e se anche così fosse tutti gli altri l’hanno adottata come scelta inevitabile per sostenere lo sport spettacolo. Non solo l’atletica, tutti gli sport. Quando una federazione sportiva si difende precisando che nello sport da essa gestito l’abuso di farmaci non ha un’ incidenza drammatica rispetto ad altri sport non fa altro che ammettere che il problema è diffuso in tutti gli sport. E pertanto il problema non è del ciclismo anche se, storicamente, per la leggenda, pare che sia nato lì, non è dell’atletica anche se, sempre per la leggenda, pare che l’atletica, in quanto misurabile con metri e tempi si sia ben prestata a far evolvere l’intervento della medicina sullo sport e non è solo di altri sport che hanno aumentato a dismisura le occasioni agonistiche per riempire i palinsesti televisivi.
Ho scritto medicina “sullo” sport e non è un errore freudiano ma un errore voluto. Qui non si tratta più di medicina dello sport, sacrosanta e necessaria per tutelare la salute degli atleti, ma si tratta di medicina “sullo” sport dove la modulazione dell’utilizzo di certi farmaci ha finito per essere influente sul rendimento sportivo più dell’affinamento tecnico. L’antidoping ha subito questa evoluzione e non ha avuto la possibilità di ostacolarla in alcun modo.
La faccenda degli atleti russi esclusi dai giochi di Rio è triste e patetica al tempo stesso. Se al momento non riusciamo ad inventarci nessun deterrente per ridurre il ricorso alla farmacologia nella preparazione dello sport di alto livello abbiamo almeno il coraggio di ammettere che la strada praticata fino ad ora è stata semplicemente fallimentare. Lo scandalo non è l’ammissione ai Giochi della saltatrice Klishina ma è il negare la partecipazione agli altri 67 che hanno fatto ricorso e pure a tutti quelli che non hanno fatto ricorso ma non possono partecipare perché… sono russi.