Vorrei suggerire un nuovo modo per valutare l’agonismo che vada oltre alle inflazionate categorie di agonismo sano ed agonismo esasperato. Tendiamo a semplificare dicendo che quando l’agonismo non è esagerato è sempre buono mentre quando è esasperato è sempre cattivo. Tale semplificazione è piuttosto banale, ingenua e probabilmente troppo semplicistica. E’ facile dire che un campione che se arriva primo mette in tasca un milione di dollari mentre se arriva secondo ne mette in tasca “solo” centomila deve essere animato da autentico spirito sportivo e riuscire a controllare con calma “olimpica” la sua foga agonistica, è facile a parole ma non lo è assolutamente nei fatti. E così è facile definire “sano” agonismo quello di un giocatore di calcio di una partita “scapoli-ammogliati” che fa finta di impegnarsi al massimo nella partita con gesti di vero “agonismo” quando quello non è assolutamente vero agonismo ma semplicemente rappresentazione scenica di agonismo dove l’agonismo autentico non è nemmeno lontanamente percepito e pertanto il suo effetto catartico e salutare non può essere apprezzato.
Nello sport moderno è sempre più presente il “finto agonismo”, l’agonismo simulato, mentre il vero agonismo, quello che farebbe bene alla salute, purtroppo è sempre più spesso esasperato perché accompagna gesta sportive che sono condizionate in modo determinante da grossi flussi finanziari. Tanto per cambiare mancano le vie di mezzo e si passa dallo sportivo che sembra uno sportivo, ma di vincere non gliene interessa assolutamente nulla perchè lo fa solo per buttare giù la pancia, allo sportivo che sembra uno sportivo ma è solo un professionista ed il più delle volte sa quando andrà a vincere e quando andrà a perdere e se questa disputa è davvero in bilico non esiterà a compiere gesti “estremi” per farla andare a buon fine.
Preferisco scindere un agonismo “fine” da un agonismo “grossolano” in rispetto ad un agonismo che non deve mai essere disprezzato nei suoi contenuti e può essere sempre potenzialmente sano in tutti gli ambiti.
Allora liberiamoci per un attimo del finto agonismo dello sport occasionale. Lo sport occasionale può avere una sua valenza salutistica soprattutto se non improvvisato e supportato da un minimo di preparazione fisica ma da un punto di vista agonistico è praticamente inesistente, non porta con sé un’apprezzabile coinvolgimento emotivo e pertanto ha una sua valenza strettamente fisica ma non psicologica. In senso stretto questo non potrebbe nemmeno essere definito sport ma solo attività motoria. Per sport infatti si intende qualcosa che “distrae” la nostra attenzione. Voglio vedere se un dirigente di fabbrica si fa distrarre l’attenzione da una partita fra scapoli ed ammogliati. In quella partita muoverà certamente le gambe ma la sua attenzione non è nemmeno minimamente distratta dal suo vero ruolo sociale e se squilla il cellulare a bordo campo che quasi di sicuro è acceso (e questo dettaglio apparentemente insignificante è proprio quello che può fare la differenza) è pronto a scattare proprio come un medico che deve dare la reperibilità.
In campo dilettantistico amatoriale è difficile trovare l’esempio opposto però si narra che gli atleti master (categorie di atleti un po’ stagionati) americani, per esempio, non siano del tutto refrattari all’idea di abbandonare il lavoro anzitempo (soprattutto se sono benestanti…) per concentrarsi sulla preparazione nella loro attività sportiva con l’obiettivo di arrivare ad un titolo mondiale o anche semplicemente nazionale delle categorie amatoriali. Qui una componente agonistica decisamente accentuata c’è e certamente, non c’è telefono cellulare che tenga e nemmeno azienda che ha problemi improcrastinabili. In tali casi lo sport ha esercitato in modo talmente significativo la sua “distrazione” che il soggetto della sua professione se n’è addirittura dimenticato completamente. Siamo andati all’estremo in un campo che non dovrebbe contemplare un forte agonismo. Ma possono esistere situazioni molto più razionali.
Può esistere una componente realmente agonistica che io oso definire “fine” anche in una attività sportiva amatoriale che non muove flussi finanziari almeno con riferimento ad eventuali premi dei vincitori. Il vincitore non vince nulla, non cambia la sua vita ma impiega un certo vissuto emotivo agonistico autentico ed è è quello che cambia la sua vita. Attenzione che se è agonismo di tipo “fine” la cambia sempre in meglio perché non è che la sconfitta porti alla devastazione psicologica e la vittoria alla consacrazione ma entrambe portano un significato di ricerca di crescita che è garantito in ogni caso. Non è il vincere o il perdere che determina la qualità del vissuto ma il fatto che queste due cose non siano ignorate. E’ difficile da capire ed è “fine” per questo. Se fra vittoria e sconfitta non ci fosse nessuna differenza (come nel caso dell’incontro fra scapoli ed ammogliati) sarebbe semplicemente un agonismo finto. Questo è autentico ma è “fine” in quanto strumento di crescita per la competizione successiva. Non è agonismo fine a se stesso ma è quello che garantisce che alla competizione sia data la giusta importanza, che sia davvero sport e non solo “attività motoria”. Alla fatidica domanda “Ma se l’atleta vince è più contento che non se perde?” la risposta è fin troppo scontata. L’atleta che vince è ovviamente decisamente più contento di quello che perde ma sono contenti entrambi nel senso che c’è un’attività sulla quale investire autenticamente emozioni e la vittoria può giungere in un altro momento. Se possa esistere una vera componente agonistica nell’atleta che perde sempre ciò ci è dato dalla presenza di questo agonismo fine che non riusciremo mai a vedere per televisione e che lo distingue dall’agonismo “grossolano”.
Per certi versi l’agonismo “fine” potrebbe sembrare addirittura più esasperato ed addirittura con una sua componente di autismo e quindi di potenziale disturbo psicologico. Invece è semplicemente più evoluto e preciso dell’agonismo dello sport spettacolo.
Nello sport spettacolo mai come in questi anni si è assistito alla consacrazione del campione. Alla consacrazione del numero uno che schiaccia gli altri. Anche il numero due non esiste più, figuriamoci il tre, il quattro o il centosedici. Anche un campionato europeo di calcio organizzato bene come, a mio parere, è stato quello francese non si perde tempo ad allestire una finale per il terzo e quarto posto. Conta solo il primo, il terzo ed il quarto possono pure andare a casa.
Questo è agonismo grossolano. Partendo dall’ottima premessa che chiunque con il sacrificio la preparazione e la buona volontà può giungere al successo si è arrivati ad estrapolare erroneamente che chi non vince non conta nulla.
Purtroppo si è perso di vista il concetto che se è vero che la grande applicazione può portare addirittura al successo assoluto è soprattutto vero che l’impegno può comunque portare al miglioramento dei risultati, qualunque sia la portata finale di questi. Invece di premiare il miglioramento ci si è fermati a premiare il successo assoluto e ciò, per l’agonismo di tipo “fine” è semplicemente letale. Conta solo il vincitore ed è esasperata l’importanza del suo successo. Chi arriva dietro che sia secondo o settantesimo non conta, è comunque un perdente. L’agonismo fine è quello che ti dice che fra quattrocentoquarantaseiesimo e quattrocentoquarantcinquesimo c’è comunque una certa differenza e che fra seicentoventiquattresimo e seicentoventunesimo ce n’è ancora di più. Non sono dettagli. Il miglioramento è importante per il primo ma a maggior ragione, proprio perché riguarda un soggetto che probabilmente primo non ci arriverà mai, è importante anche per il seicentoventiquattresimo.
Quando dico che mi fa piacere che in Italia esista un saltatore in alto che salta 2 metri e 39 ma mi piacerebbe ancora di più che ce ne fossero 100 che saltano due metri e dieci intendo dire questo. Lo sport televisivo ha bisogno di quel saltatore che salta 2 metri e 39 perché è quello che terrà inchiodati i telespettatori davanti alla televisione ma lo sport vero avrebbe bisogno di cento che saltano due metri e dieci o ancora di più di 1000 che superano due metri perché sono quelli che tengono in vita lo sport diffuso sul territorio nazionale non nel solo impianto teatro delle gesta del campione osannato. L’agonismo “fine” è quello che riguarda quelli che saltano due metri. Non è autismo. In Italia, con l’attuale strutturazione dello sport, al momento è solo pura utopia e sperare in un agonismo che possa coinvolgere in modo sano chi salta “solo” due metri è molto difficile.