Da un anno è ripresa la pubblicazione della “antica” rivista “Atletica Studi”. L’intento è pregevole ed il fatto che nel primo anno siano stati raccolti solo 52 abbonamenti non deve gettare nella disperazione chi coordina questo lavoro. Io stesso ho letto il lavoro che vado a commentare sulla rivista on-line, ormai la modalità più comoda è questa e pertanto il dato di soli 52 abbonamenti alla versione cartacea non è per nulla significativo.
Piuttosto quello che mi preme sottolineare è se questa nuova versione della rivista non ripropone quanto si studiava 40 anni fa o propone qualcosa di nuovo perché nella prima ipotesi forse era sufficiente solo ristampare quanto pubblicato 40 anni fa. La supposizione è lecita perché, complice la grandissima evoluzione degli ausili farmacologici, la teoria e metodologia dell’allenamento si è evoluta molto poco nell’ultimo mezzo secolo e si è assistito più che altro ad una “computerizzazione” di idee vecchie più che ad una creazione di qualcosa di nuovo.
In particolare leggendo un interessante articolo sul mezzofondo notavo come aleggi ancora fra le righe il fantasma di un presunto modello biomeccanico ideale della corsa.
Ora mi piacerebbe che un quarto di secolo dopo l’avvio del terzo millennio si potesse pensare che un modello interessante biomeccanico sul quale studiare attentamente è… l’atleta stesso. Praticamente non mi interessa sapere quali sono le differenze fra la corsa dell’atleta che sto studiando ed il modello ideale ma semplicemente capire come corre il mio atleta senza nessuna presunzione di “correzione”, parola che purtroppo ancora appare troppo frequentemente in questi articoli.
Per conto mio, e non mi rendo conto se sono troppo avanti o sono semplicemente fuori strada, non si tratta di correggere niente e noi dal nostro atleta dobbiamo solo imparare perché se lui corre così ci sono centomila buoni motivi per cui deva correre così.
Dove mi pare di intravvedere uno spiraglio di progresso è nell’ammissione che molte esercitazioni extracorsa sono aspecifiche, io aggiungerei “terribilmente aspecifiche” e dunque secondo questo studio ci si propone di renderle più funzionali al gesto corsa e dunque studiarle anche in questo aspetto. Forse io qui sono un po’ pessimista e mi limito a dire che quando non c’è specificità c’è il rischio di perdere tempo, avere l’umiltà di capire che questo rischio esiste è già qualcosa. Penso comunque che se si è disposti a studiare varie esercitazioni extra corsa partendo addirittura dai famigerati squat che per conto mio con la corsa non c’entrano proprio nulla si può anche dedicare del tempo a tipi di corsa diversi, anche di quelli che divergono sensibilmente dal fantomatico modello biomeccanico ideale.
Sempre nel medesimo studio oltre a proporre una grande varietà di esercitazioni extracorsa si indugia anche su esemplificazioni di sedute di corsa con tanto di tempi di percorrenza che mi fanno un po’ pensare perché si propongono sedute tipo 500 metri per 9 prove con 3 minuti di recupero in 1’15” per chi deve correre i 5000 metri in 14′. Ora, a casa mia per correre o 5000 metri in 14′ è sufficiente saper correre i 1500 in 3’50” e, sempre per conto mio, invece, chi è in grado di correre 9 prove sui 500 in 1’15” può correre i 1500 metri in meno di 3’40”. Dunque delle due l’una: o vogliamo il cinquemilametrista da 14′ con le basi velocistiche di uno in grado di correre in 13’20” oppure proponiamo a questo povero cinquemilametrista da 14′ intensità di carico che non sono normalmente sopportabili.
La questione potrebbe sembrare molto cavillosa e pignola ma non lo è. A meno che quei dati non siano stati buttati lì per caso senza pensarci, ma non penso che il caso sia quello, si vuole proporre un modello di atleta che in allenamento si ammazza di fatica per arrivare a risultati piuttosto modesti se rapportati all’allenamento stesso.
Ora, confermo come, a mio parere, l’idea di far rivivere la rivista “Atletica Studi” sia una buona idea però mi piacerebbe che ci si riuscisse anche a muovere da certi cliché altrimenti forniamo ai medici buoni argomenti per continuare a sostenere come l’assistenza medica sia determinante per aiutare l’atleta moderno. L’assistenza medica è realmente determinante se l’atleta va soggetto a frequenti infortuni e pure se si sottopone a carichi di allenamento troppo elevati. Entrambe queste evenienze sono da attribuire ad errori metodologici nella conduzione dell’allenamento stesso e pertanto, con molta umiltà, ci tocca ammettere che l’assistenza medica è fondamentale se noi non riusciamo ad evolvere le tecniche di allenamento, se invece riusciamo in questo intento allora l’assistenza medica torna ad essere fondamentale per i malati e non per i sani quali devono essere essenzialmente gli sportivi.