Fondamentalmente le tecniche di allenamento sono ferme al palo, soprattutto negli sport individuali, perché non si è riusciti a cambiare la filosofia di queste che è ancora saldamente ancorata al rapporto “docente-discente” dove da una parte c’è il verbo, colui che sa tutto e deve spiegare tutto e dall’altra c’è l’allievo ignorante, che non sa niente e che deve solo imparare anche perché se prova a fare di testa sua fa danni.
La realtà di campo ci dice che i pochi allievi (ormai pochissimi, praticamente mosche bianche) che provano a fare di testa loro sono quelli che commettono meno errori, si infortunano di meno e anche se non ottengono risultati eclatanti nell’immediato sono quelli che ottengono risultati reiterabili, soprattutto migliorabili e che costituiscono trampolino di lancio per buoni progressi futuri.
Così come ai ragazzi abbiamo dato il telefonino perché non ci provino nemmeno a cambiare questa società traballante, nello sport abbiamo dato un’assistenza medica sempre più sofisticata per farli dipendere dai sistemi di organizzazione degli adulti. E pertanto le tecniche di allenamento non si sono evolute perché nessuno sperimenta più nulla visto che gli adulti non hanno né la fantasia né la volontà di sperimentare nuove tecniche di allenamento.
Succede che i ragazzi non sanno come curarsi gli infortuni e ad ogni piccolo acciacco ricorrono al fisioterapista, non sanno allenarsi con buon senso e pertanto ricascano facilmente negli infortuni, vanno nel panico quando i risultati non arrivano e ci va pure l’allenatore perché questa è l’unica cosa che riescono a trasmettere con chiarezza visto che non discutono praticamente mai la preparazione. Non ne parliamo quando devono allenarsi da soli per motivi logistici legati allo studio e/o al lavoro. Insomma la vecchia filosofia del tecnico che decide tutto, irremovibile e consolidata fa danni a non finire e provoca molto spesso l’abbandono precoce dell’attività agonistica verso i 19-20 anni se non prima che è la grande piaga del nostro sport a tutti i livelli.
Il nodo irrisolto nel promuovere la ricerca verso nuove tecniche di allenamento è proprio questa capacità da parte dei tecnici di mettersi ad ascoltare invece che proclamare sentenze. Se il tecnico non impara non può insegnare e le cose autentiche le apprende dagli allievi non dagli innumerevoli libri che ha studiato. Diciamo pure che tutti quei libri non ti servono a nulla se non ti servono a metterti in grado di ascoltare l’allievo per capirlo e potergli proporre cose che lo interessino, lo entusiasmino e lo possano instradare verso acquisizioni che rendono il rapporto tecnico un qualcosa di tutto sommato non necessario. Il buon tecnico è quello che dopo un po’ non serve più a nulla altrimenti vuol dire che non è riuscito ad insegnare. Può certamente essere utile come punto d’appoggio perché è una persona che conosce (si spera…) l’allievo ma non è decisivo per formulare la preparazione giorno per giorno.
Dunque bisogna smontare il castello artificiale delle acquisizioni incontestabili, dello stato dell’arte deprimente che toglie speranza all’innovazione per lasciare spazio all’innegabile fantasia degli allievi che già per il solo fatto che sono più giovani è sempre più feconda di quella del tecnico.
Purtroppo l’impresa è piuttosto ardua perché sono gli allievi stessi che abituati ad un sistema che ricalca essenzialmente quello scolastico, stanno lì ad ascoltare il verbo e non si muovono nemmeno se non hanno chiare indicazioni in proposito. Il nostro duro compito è quello di dover convincere gli allievi a far di testa loro, rassicurarli sul fatto che così sbagliano probabilmente meno e che comunque qualsiasi cosa che provenga da loro idee si spera che sia almeno divertente se non tecnicamente immediatamente vincente.
Quell’immediatamente è centrale per poter capire il contesto. La paura di non ottenere risultati immediati la fa da padrona e così si rinuncia a sperimentare perché si ha paura di perdere tempo. In effetti se ipotizziamo che la carriera sportiva del giovane si interrompa prima dei vent’anni tale paura non è nemmeno infondata, ma se speriamo, come lecito, che in realtà la pratica agonistica possa andare avanti almeno fintanto che la maturazione fisica lo consente (e allora il termine è spostato molto ma molto più in là), scopriamo che di tempo ce n’è abbastanza e che gli eventuali esperimenti é molto meglio farli a sedici, diciassette o anche venti anni piuttosto che a trenta quando uno spera di fare i conti su tecniche di allenamento piuttosto consolidate.
E’ auspicio di tutti, tecnici ed allievi, che lo sport possa essere divertente ed esperienza di vita, per raggiungere questo obiettivo evidentemente bisogna spogliarsi di alcuni cliché che purtroppo sono ancora saldamente presenti nella scuola ma che per fortuna possono essere sconfessati sul campo sportivo dove non si è costretti a render conto a nessuno.