Osservazione su “Ancora sulla teoria dei traumi”

“In quest’articolo tratti cose che indirettamente hanno certamente a che fare con la carriera sportiva dell’atleta ma sono cose che noi come tecnici facciamo fatica a valutare e sulle quali probabilmente è anche poco lecito interferire, a noi è lasciato essenzialmente un compito tecnico che rischia di essere avulso da discorsi molto più complessi di quel tipo…”

Ognuno la vede a modo suo e sul tema io ho una visione molto diversa, arrivo a dire che la nostra competenza tecnica è quasi nulla se non supportata da uno sguardo d’assieme che consideri l’esistenza dell’atleta più che la sua carriera atletica. Non siamo medici ma per certi versi siamo più che medici, il medico che considera il paziente in modo settoriale rischia di commettere errori madornali (e purtroppo questo è il male della medicina moderna, un po’ troppo settoriale) l’allenatore che considera solo l’aspetto tecnico nudo e crudo delle capacità prestative del suo atleta perde di vista probabilmente la cosa più importante che è il suo vissuto emozionale che è la molla non solo dello sport ma di tutte le cose dell’esistenza umana.

Mi rifugio sempre negli esempi banali ma i miei limiti di esposizione mi costringono a ciò, anche perché la materia non è per nulla semplice. Per un atleta in un certo momento della vita (magari in un altro no…) può essere molto più importante l’approvazione di una certa ragazza che la possibilità di realizzare il record del mondo dei 100 metri. Lo so che tale affermazione pare semplicemente grottesca e quasi tutti si mettono a ridere a sentirla enunciare ma questa è la vita. Ci sono cose che assumono un’importanza colossale e che non possono assolutamente essere ignorate, mai. Ovviamente queste cose possono cambiare anche repentinamente e nella mente dei giovani le esigenze sono in continuo e repentino mutamento.

Sono d’accordo sul fatto che noi come tecnici siamo spettatori di questi eventi e pure sul fatto che non sia lecito provare ad interferire. Per come la vedo io nemmeno un genitore deve interferire su queste cose, figuriamoci se ipotizzo un’ azione condizionante da parte del tecnico, però come un genitore “vede” queste cose, anche perché troppo spesso le spia in modo assiduo, può accadere che un tecnico “veda” proprio oltre che “sentire” queste cose, anche se non vuole ed in quel caso non può proprio ignorarle perché può pure essere che l’atleta lanci anche dei segnali. Può essere che su certe cose l’atleta abbia anche più confidenza che non con i genitori e lo veda come un giudice imparziale ed obiettivo che non è condizionato da dinamiche familiari.

Quando reclamo l’importanza dello sguardo d’assieme più che della dettagliata analisi tecnica voglio dire, come nell’articolo oggetto dell’osservazione, che se trascuriamo l’aspetto emotivo non abbiamo capito niente di quello che è il vero motore dello sport e dell’attività fisica. Ci muoviamo perché abbiamo delle emozioni, poi è anche vero che il movimento può scatenare delle emozioni e quello è il motivo per cui per fortuna siamo costretti a studiare anche l’aspetto psicologico e non solo il banale funzionamento della fibra muscolare.

Ci sono atleti che per colpa della carriera sportiva, in modo cosciente o anche incosciente, sono pronti ad inibire e/o frenare delle relazioni importanti e che loro stessi capiscono che sarebbero molto importanti ma reputano che devano essere congelate o “rimandate”, come se questo fosse realmente possibile. Questa cosa in realtà si fa anche per molto meno, per il lavoro, così ho l’occasione per ribadire ancora una volta la mia scala di valori. Qualcuno dice che condizionare tutto per il lavoro è cosa lecita mentre farlo per lo sport è assurdo. Io dico esattamente il contrario: se uno è letteralmente innamorato del suo sport fa bene ad essere sincero e se vive una carriera sportiva “sopportabile” dovrebbe riuscire a trovare spazio anche per cose decisamente travolgenti che non si possono rimandare. Se invece per colpa del lavoro soffoca altre cose per conto mio (ma sono tutte opinioni…) allora non ha capito niente perché per lavorare c’è tempo una vita mentre per un certo modo di intendere lo sport pare che ci sia proprio un’età dove si va più forte che nelle altre che è quella della gioventù.

Di politici che vanno molto forte anche a 70 anni purtroppo ne abbiamo tanti, ma di atleti e fidanzati che vanno veramente forte a quell’età ne abbiamo decisamente meno e li chiamiamo master nello sport e suggeriamo loro di far le cose con molta calma per guadagnarci in salute e anche come fidanzati suggeriamo loro una certa prudenza perché la passione esagerata ad una certa età è pure pericolosa (ogni riferimento tragicomico è puramente voluto…).

Sullo stile “ogni frutto ha la sua stagione” io vedo sport e passioni decisamente paralleli nella gioventù in un parallelismo che per conto mio deve portare ad entusiasmanti sinergie e conflittualità nulla. Mentre il lavoro e lo studio (diciamo pure che lo studio anche se non organizzato dall’istituzione scolastica, nell’individuo è perennemente presente da zero a cento e più anni, da quando cioè si impara tutto anche senza che nessuno te lo dica a quando si torna ad imparare solo le cose che sperimentiamo da soli senza libri, dogmi ed indicazioni ambientali varie) sono cose che attraversano tutta la vita con un’ intensità variabile che non è per niente detto che deva essere massima nel periodo della gioventù.

Per come la vedo io, anche se è una visione un po’ strana non è che fra i venti ed i venticinque anni ci sia troppo tempo per studiare e/o lavorare anche se la società moderna ci insegna esattamente il contrario.

Allora compito del giovane deve essere quello di lavorare e/o studiare, e molto spesso purtroppo queste cose deve farle assieme e farlo in modo da poter sopravvivere nella società supercompetitiva senza tralasciare l’importanza delle emozioni e dello sport che a mio parere (sempre strano e bislacco) devono essere i due colossi che caratterizzano la splendida epoca della gioventù.

L’allenatore che non medita attorno a queste cose rischia di perdere il quadro d’assieme e quella visione razionale che consente di capire in modo decisivo l’atleta e non solo per quanto attiene alle sue gesta sportive.

Insomma che la carriera sportiva vada bene al 100% se questa conta il 10% della vita del ragazzo non me ne frega proprio niente perché preferisco che l’attività sportiva funzioni al 50% con clamorosi alti e bassi se questa conta al 50% nell’esistenza cioè in modo decisamente importante e non marginale. Penso che la morosa che ha alti e bassi nel rapporto col suo ragazzo sia molto più contenta se il suo ragazzo investe decisamente tanto in quel rapporto rispetto a quella che “va tutto bene” ma per il suo ragazzo lei è solo una divertente avventuretta occasionale.

Questa passione, importante e concreta c’è chi ce la mette subito nel lavoro e ancora nello studio anche in quell’età. Se è passione più che costrizione deve essere indubbiamente valutata e rispettata ma è in quel caso che bisogna tentare di aprire gli occhi al giovane (e li è giusto chiedersi se il compito deva essere di genitori, amici e non anche del tecnico che magari ti segue da un bel po’) tentando di fargli capire che il grande spazio che riserva a studio e lavoro è inevitabilmente sottratto ad altre cose molto importanti. Il giovane che tale spazio lo dedica allo sport ed agli affetti quella cosa l’ha capita molto bene, penso che in futuro non avrà alcun tipo di rimpianto ed io mi auguro che resista bene alle pressioni della società tritatutto che ti insegna che veniamo al mondo per servire l’economia.

L’economia va avanti anche senza di noi, altre cose senza di noi non vanno avanti, non è presunzione, è realismo.