Non ho mai creduto molto alla pianificazione dell’allenamento sportivo, anzi quasi nulla.
Penso che sia possibile pianificare solo un allenamento a bassa intensità e pertanto potenzialmente noioso e siccome di professionisti che vanno piano praticamente non ce ne sono mi pare piuttosto improba l’impresa di pianificare dettagliatamente la preparazione.
La necessità di stare sempre vicini al carico di rottura per tentare di migliorare il più possibile è la cosa che esclude la possibilità di prendersela “comoda” con carichi di allenamento facilmente incrementabili e quindi decisamente sub massimali e pertanto facilmente prevedibili nelle loro reazioni di adattamento.
Al contrario, quando si indugia parecchio sulle alte intensità, soprattutto se si recupera poco, come si tende a fare oggi confrontandosi anche con atleti che approfittano degli aiutini della chimica, le reazioni di adattamento diventano assolutamente imprevedibili e pertanto è molto difficile programmare con precisione. A meno che, e questo è il famoso tormentone sovietico che ha fatto scuola da noi, proprio grazie agli aiutini della chimica non rendiamo meno gravosi quei carichi di allenamento che senza quell’aiuto sarebbero difficilmente recuperabili e allora si può anche avere la presunzione di programmare qualcosa.
in sintesi: o ti alleni con calma ed allora puoi programmare quanto vuoi ma i risultati stentano ad arrivare e pure la preparazione rischia di diventare terribilmente noiosa oppure carichi molto e ti esponi a sorprese continue di tutti i tipi che fanno saltare in breve ogni presunzione di pianificazione della forma sportiva o, ancora, ti alleni intensamente ma mitighi questa elevata intensità con farmaci che devi chiamare integrazione alimentare per non destare strani sospetti e che ti consentono di accelerare il recupero e pertanto puoi riuscire a programmare in qualche modo anche se ti alleni intensamente. Ovviamente per gli atleti professionisti questa ultima strada è molto alettante e perciò questo modo di agire, chiamiamolo dell’integrazione alimentare che è politicamente corretto, è ancora molto di moda.
Quel tipo di programmazione è un tipo di pianificazione che esula dal mio ambito di indagine e diventa più una questione da medici dove il farmaco pilota tantissimo la modulazione dei carichi e certamente tutta l’integrazione deve essere seguita con precisione maniacale dallo staff medico anche per non far risultare positivo l’atleta all’antidoping (con il rischio di far cascare il palco).
Parlando di atleti naif che rifiutano i farmaci e credetemi che ce ne sono ancora, anche se può sembrare strano, la presunta programmazione dell’allenamento può diventare fondamentale e questi sanno, perché ci sono passati in mezzo, che in realtà l’unica programmazione che si può fare è quella dei carichi bassi e medi della preparazione. L’elevata intensità è un sano auspicio e se tutto funziona arriva ma è assolutamente imprevedibile e non programmabile. Pertanto a spanne, l’atleta sa che lontano dal periodo agonistico può indugiare su basse e medie intensità che sono effettivamente programmabili e anche se noiose hanno effetto rigenerante e pure ricaricante da un punto di vista psicologico poi quando dovranno arrivare i supercarichi che portano in forma tutto diventa terribilmente aleatorio, si spera che l’infortunio non sia dietro l’angolo e chi non si aiuta con i farmaci, è inutile nasconderlo, invidia un po’ chi aiutandosi con i farmaci corre molti meno rischi di andare in sovraccarico.
Un tempo, con il vetero doping, si narrava che chi ricorreva alla chimica rischiava di più l’infortunio perché metteva artificialmente l’organismo in grado di rendere di più. Può darsi che fosse anche così. Adesso è esattamente il contrario. Chi si dopa può permettersi il lusso di caricare di meno, o meglio, di raggiungere intensità interessanti con minor stress. Sono quelle intensità alle quali l’atleta che non ricorre all’ausilio farmacologico è costretto comunque a ricorrere se vuole raggiungere la forma sportiva ma per lui il gioco è più impegnativo perché non supportato da alcun ausilio.
Insomma chi si allena al naturale più che programmare “spera”. Spera di entrare comunque in forma e spera soprattutto di riuscire a non farsi male in quel momento (altro paradosso) che dovrà essere necessariamente più breve di quello che può essere preventivato dall’atleta che si aiuta farmacologicamente.
E anche lì le cose sono cambiate perché se un tempo aleggiava la leggenda che il campione che prendeva farmaci restava in forma per poco tempo, il breve tempo di creazione della forma “artificiale”, con i farmaci adesso è proprio l’opposto nel senso che si riesce a prolungare quella forma sportiva che l’atleta al naturale, per evidenti motivi, fa fatica a tenere a lungo.
Insomma programmare davvero pare che sia restata una prerogativa solo di chi lavora con il medico costantemente alle calcagna. Chi fa il naif può avere la presunzione e la speranza di pianificare a modo suo la preparazione ma in realtà è in balia del caso o meglio dei soli effetti della sua preparazione di campo che per valida e collaudata che sia presenterà sempre mille incognite. Il pioniere è decisamente lui ed anche lì sono cambiate le carte in tavola perché una volta il pioniere, quasi un disgraziato più che un pioniere, era l’atleta che pigliava farmaci pure con il rischio di risultate positivo all’antidoping perché tutto era improvvisato e l’antidoping, anche se meno evoluto di quello attuale, aveva qualche chances di pigliare qualche sprovveduto positivo.
Oggi risulta positivo solo chi fa di testa sua e, tutto sommato, almeno il rischio di trattamenti folli viene scongiurato. Se l’antidoping deve restare in piedi per quello ammettiamo che serve ancora a qualcosa. Io, che credo che lo sport vada fatto davvero senza farmaci, penso che l’antidoping attuale in realtà sia una grandissima pagliacciata, ma quelle sono opinioni del tutto personali. La realtà di campo racconta tutt’altra storia.