Le attività umane possiamo classificarle in centomila modi diversi. Partendo dalla ludicità delle stesse una classificazione molto curiosa può portare a considerazioni anche filosofiche abbastanza interessanti. I due estremi assoluti sono il gioco puro dei bambini assolutamente ingenui e la sporca guerra degli adulti che sarebbe molto meglio se fossero rimasti bambini. Dentro questi estremi c’è una varietà di tinte dove sport e lavoro a volte addirittura si confondono e comunque vanno sempre rispettati perché elementi imprescindibili nella vita di qualsiasi adulto che viva in condizioni normali.
Io tendo a definire lo sport un “gioco profondo” perché per conto mio lo sport praticato con dedizione più che un semplice gioco è un gioco profondo ed è anche per quello che sostengo che non abbia molto senso cominciare a praticarlo in modo sistematico prima dei 14 anni circa, perché prima di quella età deve essere data la precedenza proprio al gioco libero, senza regole e senza obiettivi ben definiti.
Ma vediamo le possibili definizioni partendo proprio dalla più semplice che è quella del gioco puro, infantile e premettendo subito che sull’ultima non mi soffermerò molto perché non mi va tanto di scrivere di guerra qui sopra.
Il gioco istintivo non è codificabile, nemmeno prevedibile, è quello spontaneo dei bambini e può prevedere una gran quantità di movimento come pure poco a seconda delle situazioni, non ha orari e se fosse per i bambini sani se ne farebbero veramente quantità industriali tutti i giorni.
Purtroppo nella nostra società il tempo riservato al gioco puro si è via via contratto e ha spesso lasciato spazio ad un gioco più codificato che anche se non può essere definito profondo perché i bambini sono meno complessi degli adulti è comunque meno spontaneo, più prevedibile e confinato in orari abbastanza precisi anche per esigenze organizzative (le varie scuole calcio ed i settori giovanili di tanti sport con tanto di istruttore specializzato tanto per dire…).
Il gioco istintivo non è tanto nelle corde degli adulti che semmai sono portati a giocare in altro modo ma anche lì lasciamo perdere altrimenti tocchiamo argomento di grande impatto sociologico. Diciamo che parlando di adolescenti e ragazzi grandi il gioco semplice viene sostituito dal gioco profondo che praticamente è lo sport con tutti i suoi obiettivi agonistici, le sue razionalizzazioni, le sue programmazioni e, perché no, anche le sue forzature un po’ conflittuali nei confronti delle altre attività umane.
C’è gioco profondo anche in una ludopatia di chi gioca d’azzardo senza nessunissima attività fisica, non analizziamo quel complesso aspetto se non per confermare che movimento o non movimento, crescendo d’età siamo istintivamente portati a dare connotati più complessi al gioco.
Lo sport può combattere bene la ludopatia perché in un certo senso è un po’ un gioco d’azzardo, un gioco d’azzardo che fa bene alla salute ma comunque un qualcosa dove ci si investe su abbastanza tempo, emozioni e vita sperando di averne un certo ritorno. Diciamo che il ritorno anche se non in termini di risultati agonistici è quasi garantito in termini di salute e pertanto è proprio da consigliare a tutti i giovani lo sport anziché il gioco d’azzardo.
La mia classificazione procede in modo eccentrico andando a considerare il lavoro e mettendolo in parentela con le due attività sopradescritte. Il lavoro purtroppo è una necessità e non è un gioco però può anche essere considerato un parente del “gioco profondo” nel senso che umanamente l’uomo prova a divertirsi e a razionalizzare in modo giocoso, quando può, anche il lavoro.
L’ideale sarebbe che tutte le persone potessero trovare un aspetto giocoso nel loro lavoro, anche per sentirlo meno pesante e sopportarlo meglio. Purtroppo certe professioni di giocoso non hanno proprio nulla e scherzando ma non troppo mi viene da dire che il confine con l’altro elemento è proprio quello con la guerra. Quando l’uomo lavora in modo esagerato per sopravvivere si sente proprio dentro ad una guerra. E’ la sua guerra personale per la sopravvivenza ma è comunque una guerra e addio sogni dell’infanzia e tempo per giocare. Il tempo dell’esistenza è ottimizzato al massimo ed impiegato quasi esclusivamente per vincere questa guerra.
Differenza clamorosa fra gioco puro e guerra è la necessità del risultato. Nel primo il risultato non conta perché la cosa più importante è divertirsi, nel secondo il risultato è tutto e si arriva alla follia del risultato talmente importante che per questo si da anche la vita e, peggio ancora, si è pure disposti a toglierla agli altri pur di arrivare al risultato.
Da questo punto di vista io non chiamo guerra la lotta al doping e assolutamente men che meno l’elevata medicalizzazione dello sport moderno. Semmai questo aspetto molto spinoso dello sport esasperato è la dimostrazione che il gioco profondo (lo sport) talvolta può essere considerato un vero e proprio lavoro. Basta che ci siano i soldi di mezzo che lo sport deve essere definito a tutti gli effetti un lavoro anche se è un lavoro che si sa che non potrà essere fatto per tutta la vita.
Trovo scandaloso che ci si scandalizzi di fronte al ricorso sistematico alla farmacologia quando ci sono mestieri dove si guadagna molto meno dove non si esita a ricorrere alla farmacologia per affrontare le patologie professionali. Il farmaco che il vigile urbano usa per sopravvivere in mezzo allo smog esagerato nelle nostre città può essere lo stesso che l’atleta che vuol massimizzare il suo rendimento in qualche competizione di resistenza si trova ad assumere pur non avendo alcuna patologia in atto. Il vigile urbano ti dice che senza quel farmaco non riesce a lavorare, l’atleta ti dice la stessa identica cosa, l’unico problema dell’atleta è che lui non lo può dire ma nel momento in cui prende soldi per fare quella professione e senza quella professione non sa come tirare avanti il principio è lo stesso. Qualcuno si immagina che sia più costretto al suo lavoro il vigile urbano ma per certi versi può esserlo anche di più l’atleta.
A questo punto una sottigliezza che viene spontanea è che quando c’è una relazione di parentela fra gioco profondo e lavoro è molto meglio se partendo dal lavoro si usano i metodi del gioco profondo per rendere divertente e digeribile la professione che non il percorso inverso, quando partendo dal gioco profondo si usano i metodi del mondo del lavoro per ottimizzare sempre di più i risultati del gioco profondo. In una parola è meglio se il gioco non è troppo profondo rendendo i risultati assolutamente necessari e se il lavoro, pur essendo lavoro può, essere sdrammatizzato (in alcune professioni per fortuna è possibile…) affermando che ciò che non si riesce a fare oggi può comunque essere fatto domani.
Io mi scandalizzo quando parlando di sport si dice che una certa competizione è una vera e propria guerra. Che ciò sia detto per enfatizzare lo spettacolo posso anche capirlo ma che questa cosa possa diventare quasi vera prevedendo addirittura episodi violenti fra i contendenti (penso al fallo da infortunio grave nel calcio) non mi va per niente e continuo ad insistere sul fatto che basta molto meno per far ricorso al doping. In fin dei conti l’atleta che fa uso di doping al massimo fa del male a se stesso, non agli altri. Io sanzionerei con punizioni più consistenti chi provoca un danno fisico all’avversario che non chi si è bevuto chissà cosa pur di migliorare il rendimento sportivo.
In ogni caso questo tema della lealtà nel gioco profondo deve essere considerato con attenzione perché per certi versi, se non fosse che alla fine tutti gli atleti sono ad armi pari perché l’antidoping funziona da far schifo, anche il solo doping è deprecabile perché in uno sport dove circolano molti soldi doparsi vuol dire anche soffiare i soldi a chi non si dopa.
Tornando al confine fra gioco e lavoro io sostengo che non sia il lavoro a dover insegnare come ci si comporta nel gioco ma proprio l’opposto, si tratta di rendere il lavoro più leggero possibile, meno stressante, più, sopportabile e giocoso.
Vai a raccontare questa cosa ad un chirurgo o ad un pilota di aereo e chiederà che chi dice così venga internato immediatamente. Nel caso delle professioni pesanti, tali osservazioni vogliono semplicemente dire che non si possono affrontare certe professioni con orari troppo pesanti perché se una certa concentrazione è d’obbligo non si può pensare che questa venga offerta continuamente senza problemi da un uomo-robot.
L’idea di trascurare del tutto l’aspetto giocoso dell’esistenza porta alla giustificazione della guerra. Se tutto è stramaledettamente importante ed il risultato è questione di vita di morte allora la guerra è la conseguenza possibile perché tutto è tollerato per raggiungere il risultato. Dapprima l’idea di rischiare la propria salute e poi all’estremo anche quella dell’altro in nome di un folle ideale che vede l’aberrazione del comportamento. Muoversi per un ideale folle che può vedere pure la soppressione dell’individuo. Chi fa la guerra non sa giocare, non ci capisce nulla di gioco profondo e, aggiungo io, non ci capisce niente nemmeno di lavoro, perché nessun lavoro, nemmeno il più disgraziato, beneficia degli effetti devastanti della guerra.
Valutare attentamente i rapporti fra gioco e lavoro forse può renderci obiettivi e farci capire per cosa vale la pena di vivere senza guastarsi l’esistenza per ideali folli.